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THE BOOKSTORECARTA CANTA
Il Procuratore Della Giudea
Anatole France
1980  (Sellerio)
LIBRI E ALTRE STORIE
9/10
all THE BOOKSTORE
24/04/2018
Anatole France
Il Procuratore Della Giudea
Certe volte capita di imbattersi in libri di cui hai sentito parlare poco o niente e di scoprire dei veri e propri capolavori.

Perfetto. Il racconto perfetto.

Certe volte capita di imbattersi in libri di cui hai sentito parlare poco o niente e di scoprire dei veri e propri capolavori. È il caso di questo racconto, un vero e proprio gioiello che, nella sua brevità – una ventina di pagine appena – racchiude tutti gli elementi del racconto perfetto: eleganza descrittiva, ambientazione dettagliata, personaggi ben definiti, accuratezza storica, tensione quanto basta e colpo di scena finale.

Siamo nel I sec. d.C. L’ormai anziano prefetto Elio Lamia si trova a Baia per trovare sollievo agli acciacchi dell’età e qui, del tutto per caso, ritrova un vecchio amico: dopo la sorpresa iniziale,  la gioia per l’essersi ritrovati, e i convenevoli del caso, i due si danno appuntamento per una cena l’indomani: è l’occasione di lasciarsi andare ai ricordi e ripercorrere gli anni trascorsi insieme a Cesarea.

In pratica, un fatto banale: due vecchi amici si rincontrano, cenano insieme e si mettono a parlare del tempo passato, come accade a migliaia di vecchi amici a qualsiasi latitudine e in qualsiasi epoca. Dunque niente di particolare fin qui...se non fosse per il fatto che Elio Lamia è stato testimone di un periodo politicamente molto significativo per l’impero romano, e soprattutto che l’amico in questione non è proprio uno qualunque. Si tratta, infatti, dell’ormai ex procuratore della Giudea Ponzio Pilato.

Pilato è il classico uomo politico amareggiato, deluso dalla sua carriera politica che immaginava assai più luminosa, che ha vissuto nella convinzione di svolgere correttamente il proprio dovere ma si è ritrovato contro l’ostilità e l’invidia dei suoi pari, al punto da essere calunniato, osteggiato, umiliato addirittura, e poi costretto a ritirarsi dalla scena politica.

In quanto procuratore, suo compito era mantenere la Giudea sotto controllo, cosa non proprio facile visto che all’epoca la regione era nel pieno di una rivolta di samaritani, tanto più che gli intrighi di corte e le trame di potere gli avevano procurato l’ostilità dell’imperatore Vitellio, apertamente schierato dalla parte di una fazione degli ebrei, e quindi pronto a sconfessare e bloccare qualsiasi tentativo di Pilato di pacificare la Giudea.

Per lui gli ebrei sono un problema: troppo condizionati dalla loro fede religiosa, che provoca vere e proprie guerre intestine, non riescono a parlarne mai serenamente; ignorano la filosofia e non tollerano la diversità di opinioni. Nelle sue parole avvertiamo l’insofferenza per questo popolo che gli ha dato tante gatte da pelare, lo ha costretto, a suo dire, a mettere da parte la clemenza in nome di una crudeltà dagli ebrei stessi invocata contro chi deviasse dai loro canoni e dalle loro idee. Per Pilato “non si riuscirà mai a domare un popolo simile” e “non potendo governarlo, bisognerà distruggerlo”. L’atteggiamento di Pilato è quello classico del patrizio romano con incarichi di governo: totalmente dedito alla causa dell’Impero Romano, non concepisce la possibilità che un popolo non voglia vivere sotto l’egida di Roma, è convinto che i popoli non si possano governare con la clemenza e la carità, e che sia assurdo non apprezzare la pax e il dominio romano. Non riesce quindi a spiegarsi la riottosità degli ebrei, il loro rifiuto a pagare i tributi, alla leva, addirittura ad accettare le opere pubbliche da lui avviate, come l’imponente acquedotto, in nome della religione che pare dominare tutto il loro pensiero.

Insomma, per fare un parallelo con i nostri giorni, Pilato ragiona come il classico imperialista statunitense: tutto ciò che l’Impero fa agli altri popoli è solo per la loro felicità e il loro benessere, “È un grave problema quello di sapere se agli uomini si deve imporre una felicità che non vogliono”.

La verità storica dei fatti viene ristabilita da Lamia che mette in evidenza il carattere troppo intollerante e duro di Pilato verso gli ebrei, i suoi errori, il suo rifiuto a comprendere le ragioni degli ebrei, a cercare di conoscerne le ragioni. Per lui, al contrario, il popolo ebraico è pieno di uomini semplici e virtuosi pronti a morire per ciò in cui credono, il che è certamente un merito.

Fino a questo punto, sembra che il tema centrale sia la politica – e di fatto essa ha tanta parte nel racconto – ma al contempo si delineano apertamente le differenze di temperamento dei due protagonisti: Pilato ha un carattere impetuoso, poco incline alla diplomazia e alla moderazione, per lui non esistono mezze misure; al contrario Lamia, che pure in gioventù ha vissuto i suoi momenti difficili – una questione “di donne” lo ha costretto a lasciare Roma e all’esilio – è molto più tollerante e conciliante, mostra una mentalità più aperta e un atteggiamento sereno verso il passato.

Tuttavia, la conversazione affronta anche altri argomenti. Si tratta pur sempre di due anziani e quindi si parla di salute, col reciproco elenco dei mali dell’età, del clima, di Baia, dell’eccessivo lusso moderno, dei lavori pubblici...un po’ come se due pensionati di oggi si trovassero a cena a parlare di prostata, e “non ci sono più le mezze stagioni”, e “i fanghi a Ischia sono un toccasana per l’artrosi”, “i computer hanno rovinato la società”, “Roma è piena di buche”  e simili.

E ovviamente non possono mancare le donne! In particolare, per Lamia, è forte il ricordo delle belle donne ebree che su di lui hanno sempre esercitato un certo fascino. L’integerrimo Pilato non approva questa sua passione sfrenata, l’essersi troppo dedicato alla “Venere dei trivi”; per lui le donne ebree sono prive di qualsiasi attrattiva e rimprovera l’amico.  Ma Lamia non si cura del biasimo di Pilato: improvvisamente il suo sguardo si fa trasognato e comincia a pensare ad una donna in particolare, una donna bellissima alla cui seduzione non riusciva proprio a resistere; purtroppo, ad un certo punto, non ne seppe più niente. Provò a cercarla ma di lei seppe solo che era sparita dietro un taumaturgo della Galilea, uno dei tanti, un certo Gesù il Nazareno.

È qui che il racconto svela la sua perfezione: France, per tutto il tempo ci ha lasciato delle sottilissime tracce che portavano a questo epilogo, ma solo nella frase finale il colpo di scena si rivela pienamente ed è inevitabile provare un senso di lieve smarrimento, e sorridere di Pilato e di noi stessi per quello che ci aspettavamo e che invece non è successo, per quel che ci sembrava ovvio leggere e che France sapientemente ci ha negato.

Considerato un apologo e un’apologia dello scetticismo, Il procuratore della Giudea, fu pubblicato per la prima volta nel 1902 e sia in quell’occasione che nelle successive ristampe è apparso sempre in edizioni limitate, pregevoli, raffinate e quindi rare, il che spiega perché non sia molto noto al grande pubblico dei lettori.

La traduzione in italiano è di Leonardo Sciascia la cui nota aggiunge piacere al libro esaltandone il significato nascosto. Sciascia, infatti, sottolinea l’erudizione di France, la sua precisione e accuratezza storica, l’uso di fonti autorevoli come Tacito, Flavio Giuseppe, il Vangelo. Eppure il racconto non risulta appesantito da questi riferimenti eruditi: leggendolo non si avverte mai un senso di pesantezza, di noia, tantomeno si ha la sensazione di una lettura destinata a pochi. Il segreto di France è proprio l’uso della semplicità e della naturalezza nel linguaggio, al punto che talvolta ci si dimentica che a parlare siano due uomini del I sec. d.C.

Apologo dello scetticismo e quindi, come nota Sciascia, apologo della tolleranza che è figlia dello scetticismo. Ma se questo è il senso più nascosto del racconto, quello che meno salta evidente agli occhi del lettore, e che appunto ci viene svelato da Sciascia, molto più facile per noi è individuare ne Il procuratore della Giudea, un altro senso, più immediato: il suo essere anche elogio della dimenticanza, come risulta evidente dal finale, e di conseguenza la sua capacità di relativizzare quelle che troppo spesso consideriamo delle verità assolute.

In definitiva, France  scardina tutte le nostre certezze e ci invita a ripensare al tempo, alla Storia, ai noi stessi e al nostro ruolo nel tempo e nella Storia in maniera completamente nuova, dando valore al presente, al qui e all’adesso, senza curarci del ricordo che lasceremo di noi: “solo noi possiamo rendere testimonianza alla nostra virtù”.