Jacques Audiard ha un bel volto, uno di quelli che sarebbero adatti per un bel noir francese. E' figlio d'arte, papà Michel, ormai scomparso nel lontano 1985, fu regista e sceneggiatore di numerosi film, mentre Jacques a oggi vanta anche una filmografia non nutritissima (nove lunghi in poco meno di un trentennio) ma di tutto rispetto. Un paio di opere poco note qui in Italia, ma che già raccolsero premi e consensi in patria: Un héros très discret del 1996 vinse il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes (sceneggiatura dello stesso Audiard, sulle orme del padre), il successivo Sulle mie labbra, forse grazie alla presenza di Vincent Cassel e del viso particolare di Emanuelle Devos si vede finalmente qui da noi con passaggi anche su reti private (le piattaforme erano di là da venire); chi scrive scoprì così il lavoro del regista francese. Un film affascinante con una Devos che interpreta una ragazza sorda che cede al fascino di un mezzo delinquente.
Il successivo Tutti i battiti del mio cuore, pur essendo un remake, è uno di quei film folgoranti capaci di farti innamorare di un regista, uno splendido Romain Duris, in bilico tra arte e violenza, accompagna nel mondo degli sgomberi forzati e in quello delle virtù pianistiche. L'opera successiva è la vera consacrazione di Audiard e lo inserisce tra i registi da seguire con attenzione, è proprio Il profeta, che raccoglierà critiche positive e apprezzamenti, compresa la nomination come miglior film straniero agli Oscar. Seguiranno altre opere celebrate, come Un sapore di ruggine e ossa, Dheepan - Una nuova vita e il western anomalo I fratelli Sisters. Quando si pensa ad Audiard, però, è forse proprio Il profeta il film a cui più facilmente corre il pensiero.
Malik (Tahar Rahim) è un ragazzo francese di origine araba appena maggiorenne che si prende sei anni da scontare in un carcere dove i detenuti sono davvero pericolosi. Malik è semi analfabeta, arriva da un'infanzia fatti di disagio e orfanotrofi, ma nonostante tutto non è un violento, entra in carcere col proposito di farsi gli affari suoi e rigare dritto. Purtroppo nelle sezioni comuni viene in contatto con un gruppo di malavitosi corsi capeggiato dall'anziano e spietato Cèsar Luciani (Niels Arestrup). Questi vede in Malik l'opportunità per togliere di mezzo l'arabo Reyeb (Hichem Yacoubi), un testimone scomodo che a breve dovrà presentarsi in aula per testimoniare proprio contro gli interessi della mala corsa.
Costretto a compiere l'omicidio con la complicità di qualche guardia connivente, Malik entra nelle grazie dei corsi e di Luciani che, sempre con la dovuta diffidenza e un certo distacco, prendono il giovane sotto la loro ala. Malik dovrà superare i sei anni della sua condanna accompagnato dal fantasma di Reyeb e mantenendo un equilibrio da funambolo per rimanere equidistante tra corsi e arabi, un gruppo sempre più nutrito che vede Malik come un traditore a causa della sua vicinanza ai corsi.
Nel frattempo il ragazzo osserva, ascolta, obbedisce, impara il corso, diventa sempre più furbo, si comporta bene, studia, impara a leggere e a scrivere. Un poco alla volta da pedina manovrabile che era si trasforma in un uomo in grado di capire le dinamiche del carcere e della malavita, degli affari e dei comportamenti dei piccoli delinquenti. Il suo sarà un percorso di formazione, non proprio uno di quelli da classico coming of age però.
In realtà Malik non ha nulla del profeta né tantomeno del religioso, nel film c'è un accenno fatto da un personaggio secondario alla figura di un profeta (il titolo originale è infatti un profeta e non il profeta) in relazione al protagonista ma nulla più. Qua e là Audiard in realtà inserisce qualche accenno "mistico", si pensi al ritornare del fantasma dell'ucciso come manifestazione della colpa, al riferimento esplicito ai 40 giorni di isolamento, ma sono questi accenni buoni come chiave ulteriore di lettura che però non spostano di troppo la centralità della narrazione principale, quella dello sviluppo di un protagonista che "nasce" sprovveduto e pian piano si forma, non alla vita ma alla sopravvivenza al (e nel) crimine.
Cast di sconosciuti a parte Arestrup, Audiard assembla un gruppo di volti efficacissimi per raccontarci questa vicenda carceraria, non solo quello di Tahar Rahim. Tutti i protagonisti contribuiscono alla credibilità del film aiutato in questo da una regia e da una fotografia molto naturali, Audiard esibisce il suo talento solo in alcune sequenze brevi e molto particolari, per il resto si limita a narrare per immagini in maniera sublime, infilando qua e là la sua zampata senza snaturare un film che non presenta discontinuità.
Un poco alla volta quello che fa il regista, in veste di sceneggiatore in questo caso, è spostare passo dopo passo i pesi sulla bilancia, i pezzi sulla scacchiera, in una lenta e studiata partita, fatta più di intelligenza che di forza bruta, dalla quale è necessario uscire vincitori per non farsi schiacciare e soccombere.
Dal racconto mostratoci da Audiard, al di là di corsi e maghrebini, guardie e ladri, vittime e carnefici, colui che alla fine ne esce peggio è di certo il sistema carcerario, che magari insegna anche a leggere e a scrivere, ma che difficilmente riesce a trasformare i detenuti in persone migliori e pronte all'inserimento in società.