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REVIEWSLE RECENSIONI
24/10/2025
Upchuck
I’m Nice Now
Del resto, cosa vi aspettate da una band che si chiama vomito?

Ho ascoltato la prima volta per intero I’m Nice Now qualche ora dopo i titoli di coda di Una battaglia dopo l'altra, l’ultimo film di Paul Thomas Anderson. Una congiuntura indiscutibilmente offline, al riparo da qualunque ingerenza algoritmica, e che mi ha sorpreso con così tanta forza da farmi gridare al miracolo. Non c’è colonna sonora più adatta al processo di sedimentazione di un film così monumentale e profondamente segnante. Ho pensato addirittura che (attenzione spoiler) nella scena finale in cui Willa Ferguson/Charlene si mette al volante per dare seguito alla vocazione ribelle della madre, persino il titolo, del terzo album degli Upchuck, sia perfetto per una didascalia di un fermo immagine così pregno di significati. Uno su tutti: mai confondere la gentilezza con la debolezza.

Mentre uscivo dalla sala, qualcuno davanti a me ha reso una sintesi perfetta dello stato d’animo a cui il film induce sottolineando quanto sia urgente, giunti a questo punto della storia, compiere qualcosa di profondamente illegale, così come I’m Nice Now è un disco che sporca, che guasta la giornata, che fa incazzare. La giustificazione firmata da chi ne fa le veci ad agire al di fuori delle regole perché, nell’intento di rovesciare le cose, non c’è come la rabbia a far percepire tutto perfettamente nitido e logico. Si mette a fuoco il contorno e ogni cosa va al suo posto, a partire dal fatto che per praticare la trasgressione è ammesso anche suonare hardcore secondo canoni più moderni e personali, o anche meno filologici.

 

Quello che non è cambiato è che l’irrefrenabile impellenza dei derivati del punk sia la sfumatura più complessa da cristallizzare su un disco. A catturare un moto così intenso nei live ma altresì dinamico e sfuggente per imbalsamarlo a vantaggio di ascolti reiterati, si corre il rischio di rendere il tutto patinato. Un pericolo che non riguarda certo gli Upchuck e I’m Nice Now, grazie anche al lavoro alla regia di Ty Segall, già dietro le quinte del precedente Bite The Hand That Feeds. Il suo ruolo di produttore per l’esordio alla Domino ha contribuito alla non facile missione di passare al setaccio il loro sound (registrato totalmente in presa live) senza disinnescarne la portata di violenza artistica.

D’altronde, come poteva andare diversamente? KT, la cantante della band, è cresciuta donna afroamericana e ai margini dell’economia ad Atlanta, Georgia, Stati Uniti, un comburente perfetto per infiammare rabbia e sofferenza, per una volta incanalati nella crudezza del rock’n’roll più feroce. Una band nata nel momento peggiore della storia americana e non solo, la prima amministrazione Trump, e destinata a pubblicare il disco della consacrazione durante il secondo e fatale mandato. A condividere questo sorte beffarda un manipolo di compagni di guerriglia: il batterista Chris Salgado, che in I’m Nice Now contribuisce anche come cantante delle strofe in spagnolo in un genuino impulso internazionalista, i chitarristi Mikey Durham e Alex Hoffman e Ausar Ward a completare la sezione ritmica al basso.

 

Tra le tredici canzoni di questo sorprendente disco si trovano distillati di energia resi in molteplici sotto-derivati del punk. L’hardcore più viscerale e grezzo si può rintracciare in brani come “Fried”, “Un Momento”, “Kin”, “Lost One”, in alcuni casi con repentini cambi di tempo tipici del modo di interpretare lo stile alla vecchia maniera e un’espressività per nulla antitetica ad aperture melodiche e decisamente accomodanti come “New Case” e “Slow Down”. Si distinguono anche riff stoner ai confini del post-grunge in “Kept Inside”, “Forgotten Token” e “Nowhere”, e momenti più alternative rock in “Plastic” e “Homenaje”, senza contare l’intro di “Pressure”, una vera e propria miccia per una detonazione smaccatamente alla Sonic Youth.

Upchuck, vomito, è ancora una volta un destino nel nome perfetto. Nulla come un conato consente l’espulsione da un organismo, attraverso un atto involontario, di un corpo estraneo per la ripresa della funzione svolta per natura e che, per un essere umano, fondamentalmente coincide con la libertà. Un gesto estremo e indotto da soprusi quali il razzismo, il sessismo e il classismo di cui l’american way of life è permeata. Un tentativo per rigettare il malessere e impedire un blocco totale, riprendere il respiro, mettersi a suonare e a cantare e prepararsi alla prossima battaglia.