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REVIEWSLE RECENSIONI
I'm Not Sorry, I Was Just Being Me
King Hannah
2022  (City Slang)
INDIE ROCK ALTERNATIVE
7,5/10
all REVIEWS
02/03/2022
King Hannah
I'm Not Sorry, I Was Just Being Me
I’m Not Sorry, I Was Just Being Me è un album dalla forte impronta cinematografica, che razionalizza, sgrezza e lima la proposta dell EP, che nel 2020 ha incantato molti. Il duo di Liverpool è atteso al varco del secondo disco, per capire se l’entusiasmo della prima ora abbia davvero basi solide o se sia invece destinato a sgonfiarsi.

Alla fine del 2020 venivamo folgorati dai King Hannah e dal loro esordio Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine, EP da sei pezzi che in realtà durava quanto un album, bellezza siderale di chitarre desertiche, vocalità Dream Pop, il santino dei Mazzy Star sul comodino e atmosfere da David Lynch ovattato. Una proposta che ne ricalcava mille altre ma che allo stesso tempo aveva una gentilezza e una determinatezza da suonare come una totale novità. Di contorno, la storia singolare, a metà tra il nonsense e la commedia romantica di Craig Whittle e Hannah Merrick, con lui che prima la vede esibirsi dal vivo, poi si ritrovano a lavorare nello stesso pub, poi lui le fa una corte (artistica) serrata e la convince a mettere su una band. Diventassero famosi, ci farebbero un film a produzione Netflix e chissà, forse proprio pregustandosi l’effetto, i due non hanno avuto reticenze a raccontare la nascita del loro sodalizio laddove, al contrario, sono stati piuttosto avari di informazioni personali.

Sia come sia, oggi il duo di Liverpool è atteso al varco del secondo disco, per capire se l’entusiasmo della prima ora abbia davvero basi solide o se sia invece destinato a sgonfiarsi.

I’m Not Sorry, I Was Just Being Me prosegue la tradizione dei titoli colloquiali e ironicamente sinceri e vede nuovamente un gruppo a formazione allargata, pur con qualche minimo cambiamento (Dylan Gorman non è più della partita, confermati invece Ted White, Jake Lipiec e Olly Gorman).

Per scriverlo hanno utilizzato il secondo lockdown e il conseguente annullamento del tour: si sarebbe potuto dire che sia stato uno svantaggio, perché normalmente un gruppo migliora suonando dal vivo il più possibile, invece loro dicono che è stato meglio così, perché stando a casa a scrivere e a provare le nuove canzoni si sentono molto più migliorati come musicisti.

Di sicuro l’impressione è che abbiano voluto razionalizzare, sgrezzare e limare la proposta: nel primo lavoro c’era indubbiamente l’urgenza di mostrare tutte in una volta le frecce al loro arco, in questo si avverte una maggiore discrezionalità, un concentrarsi maggiormente sulla scrittura delle singole canzoni, con una grande attenzione ai dettagli. Significativo in questo senso che ci sia un solo brano di lunga durata, “The Moods That I Get In”, l’unico del lotto che sia costruito come i pezzi forti dell’EP, mood ipnotico e lunghi sfoghi chitarristici nella seconda parte.

È un disco dalla forte impronta cinematografica, che conferma le dichiarazioni di Whittle secondo cui avrebbero voluto costruire ogni canzone come fosse un’ipotetica colonna sonora per qualcosa che assomigli a “La rabbia giovane”, il capolavoro di Terrence Malick che dice sia stata una delle sue più grandi fonti d’ispirazione. Senza perdersi in dilatazioni varie, senza farsi scappare la mano in fughe strabordanti, questi episodi più asciutti rendono giustizia ad un talento concreto nello scrivere canzoni: il Jazz fumoso di “A Well Made Woman”, in equilibrio tra le note soffuse del cantato e le esplosioni distorte della chitarra; “All Being Fine” col suo basso fluido e il suo andamento ipnotico; la blueseggiante “Big Big Baby”, un groove sensuale dato dallo splendido lavoro della sezione ritmica e dal sapiente dosaggio di pieni e vuoti.

Fin qui le conferme e gli upgrade rispetto agli ingredienti già evidenziati; proseguendo con l’ascolto si nota la precisa volontà di allargare il raggio d’azione, per cui abbiamo una “Ants Crawling on an Apple Stork” dove è Whittle a cimentarsi col cantato, chitarra acustica e gli spettri di Nick Drake ed Elliott Smith in sottofondo. “Foolius Caesar” è poi un chiaro tributo ai Portishead, mentre la title track e la conclusiva “It’s Me and You, Kid” sembrano giocare su un più canonico Indie Folk, arrangiamenti scarni e melodie agrodolci. Sparsi per la scaletta, tre interludi strumentali (“Berenson” assomiglia molto a un brano vero e proprio) non certo indispensabili ma che rendono meno serrato l’ascolto, oltre ad evidenziare la passione del duo per la costruzione delle atmosfere.

Svanito l’effetto sorpresa, quel che resta è comunque un gruppo solido, destinato a rimanere e a scrivere grandi pagine di musica: siamo sempre nell’ambito della tradizione reinventata ma sappiamo bene che è impossibile (e forse anche inutile) chiedere di più a questi nostri tempi.