Sono passati sei anni dal loro ultimo album, Villains, prodotto dalla superstar pop-funk Mark Ronson. Un disco, quello, che vedeva i Queens Of The Stone Age flirtare con un suono più mainstream, posizionandosi, quindi, nel punto più distante possibile dai loro anni d’oro. Con questo nuovo disco, invece, la band capitanata da Josh Homme è tornata alle origini, ha preso le distanze dalla grandeur di Ronson, lavorando in solitudine nello studio del leader.
Ed è del tutto evidente che In Times New Roman c’è la volontà, da tempo mai così esplicita, di scavare in profondità nelle sabbie del deserto californiano per riscoprire le radici di un suono che ha fatto storia, il desiderio di rivendicare la magia che li ha resi così speciali e così follemente cool, quando hanno sfondato con l'intramontabile Rated R all'inizio del secolo.
Entrare nel bunker e allontanarsi dalle influenze esterne è stata assolutamente la cosa giusta da fare, perché questo è il suono più vitale che i Queens Of The Stone Age abbiano imbastito negli ultimi anni, rimettendo al centro della narrazione groove irresistibili e riff polverosi, e quel senso di pericolo, di qualcosa di violento che sta per scatenarsi nel cuore della notte, che è stato per lungo tempo la loro lama più tagliente.
Il singolo "Emotion Sickness" è la canzone più diretta dell'album, un millesimato QOTSA immediatamente riconoscibile, il cui ritornello sognante controbilancia un ritmo serrato e un riff ululante, antipasto di una scaletta che torna a far battere il cuore ai fan della prima ora. Così l’opener "Obscenery" fa risplendere nuovamente il marchio di fabbrica attraverso un condensato di armonie glam, grasso di motocicletta, bourbon, fumo di sigaretta e la calura esiziale del deserto, attraverso riff di chitarra accatastati uno sull’altro e vorticosi come i muri di una stanza dopo una notte di eccessi.
Un basso distorto porta ad ebollizione "Negative Space", resa inquieta dal falsetto spettrale e pieno di amarezza di Homme, la cadenzata "Made For Parade" dispiega lascive lusinghe melodiche in un ritornello incredibilmente sensuale, "Carnavoyeur" flirta con la tenebra e canalizza il fantasma di David Bowie in un frastagliato arcipelago di synt e bassi distorti, "What The Peephole Say" scorre veloce trascinata da una linea di basso killer ed pervasa da un’ansiosa urgenza post punk, mentre le alchimie dal vago sapore mediorientale aprono le sonorità di "Sicily" a un inquietante scenario psichedelico ammorbato dal tanfo dello zolfo.
Il fantasma di Bowie perseguita anche "Straight Jacket Fitting", un attacco di panico di nove minuti in cui le armonie di Homme suonano come le voci di un tormento interiore, mentre le catene tintinnano e tutto è buio e malevolo, finchè, all’improvviso, la porta si apre e finalmente penetra la luce riverberata da un dolce e rilassante outro acustico.
Se da un po’ di anni Homme aveva perso l’ispirazione che aveva segnato i primi quattro, splendidi album, In Times New Roman segna un ritorno inaspettatamente vibrante, che mostra la scorza dura di una musica che il tempo aveva sbiadito, ma che oggi torna a vestire un abito nero come la pece, sensuale e seducente. I giorni di gloria sono lontani, ma la distanza si è di molto assottigliata, e se è vero che mancano hit spaccatutto come "Go With the Flow" e "No One Knows", è altrettanto vero che queste dieci canzoni hanno un futuro e si faranno ricordare. Almeno fino al prossimo capitolo della saga.