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REVIEWSLE RECENSIONI
16/05/2025
Giallorenzo
Inni e Canti
Indie Rock che si muove tra la potenza delle chitarre e il fulgore assoluto delle melodie, accelerazioni Punk, mid tempo dai riff ipnotici e scampoli di ballate semi acustiche. Tutto questo e decisamente molto di più sono i Giallorenzo. Che fine fanno le storie delle persone, quando muoiono? Che ne sarà di quelle esistenze solitarie, abbandonate, lontane da tutto e da tutti, quando non ci saranno più? Qualche frammento lo ritroverete negli Inni e Canti dei Giallorenzo.

Non era uno scherzo: son morto davvero. Non in guerra, ma in vecchiaia e solitudine. Quattro tizi mi hanno rubato il nome per il loro complesso. Si raccontano sia una risurrezione, una cosa necromantica. Ma loro per primi ci stanno stretti nelle storie e mai mi hanno rivolto parola. A volte sono la loro scusa per restare uniti, a volte la loro fatica quasi aliena rispetto alle loro vite quotidiane. Li porto in giro a suonare, li faccio litigare. Ma sono una storia. Il comune mi ha dato una tomba per ricordarglielo: le storie che uniscono sono quelle che non bastano. Sono quelle vere”.

 

Termina così il lungo flusso di coscienza di Claudio Giallorenzo, che esplicita finalmente la sua esistenza (seppure solo in una non ben precisata dimensione post mortem) e rivela quello che sapevamo già, vale a dire di essere stato lui, più di un lustro fa, l’ispiratore involontario della band milanese, nata di fatto come una crasi di due act già attivi da tempo sulla scena: Malkovic e Montag.

Che fine fanno le storie delle persone, quando muoiono? E che ne sarà di quelle esistenze solitarie, abbandonate, lontane da tutto e da tutti, quando non ci saranno più? Cosa ne sarà di tutto quello che hanno vissuto? Saranno destinate a svanire? O ci sarà qualcuno che ne raccoglierà i frammenti e li trasformerà in qualcosa d’altro, per esempio in canzoni?

Il palazzo dell’Areonautica Militare in piazza Novelli 1 a Milano, che campeggia austero e noncurante sulla copertina di Inni e Canti, è un esempio perfetto di questo singolare tipo di esistenza (o di risurrezione, come hanno scritto loro): qui ha lavorato per tutta la vita Claudio Giallorenzo, da qui hanno preso vita quelle storie che nessuno ha mai conosciuto e che adesso, per merito di qualche oscura magia, ci vengono riproposte sotto forma di un lungo monologo interiore dello stesso protagonista, al cui svolgimento Pietro Raimondi, Giovanni Pedersini, Fabio Copeta e Marco Zambetti hanno deciso finalmente di dare voce.

 

Il terzo disco del quartetto milanese è infatti, sotto molti punti di vista, speculare al folgorante esordio Milano posto di merda: se lì ci si concentrava maggiormente sulla dimensione umana degli sbandati e degli sconfitti, che formavano una galleria a prima vista divertente ma anche profondamente amara (sebbene il tono ironico e a tratti demenziale stemperasse molto la componente più seriosa), qui l’orizzonte si allarga e, pur prendendo le mosse dal capoluogo lombardo, si apre al mondo, considerato nella sua dimensione pubblica e politica, con l’estetica fascista di titolo ed artwork a costituire un’interessante provocazione (così come è provocatorio il fatto che il disco esca il 25 aprile, quasi ad enfatizzare il carattere da sempre controverso della nostra narrativa storica).

Definirlo concept album sarebbe forse un po’ ardito; è però innegabile che tutte queste dieci canzoni abbiano un’unica voce narrante, quella del nostro protagonista, che più che aprire squarci sulla propria biografia, si connette alla realtà odierna e prova a dire la sua, da un punto di osservazione che immaginiamo privilegiato (non si capisce se parli da un aldilà immaginario o da qualche imprecisato “non luogo”) costituendo di fatto un espediente letterario attraverso cui i quattro (oltre a Raimondi, normalmente il paroliere del gruppo, che anche qui firma la maggior parte dei brani, anche gli altri tre hanno scritto dei testi) esprimono la loro prospettiva sull’oggi.

E così, tra guerre imperanti, persistenze di fascismi, memorie di Gheddafi, un Iran metaforico, rappresentato tra le tensioni di oggi e gli echi della grandezza persiana, si finisce per approdare pur sempre a Milano, in queste canzoni più grigia e asettica, a tratti inquietante (“C’è un dolore ben nascosto/tra la brina ed il cemento/c’è un cadavere di bimba/sotto ai B&B del centro”), sempre più militarizzata (“A volte vengono a prenderti in università perché organizzavi manifestazioni, a volte sono multe assurde perché hai protestato o avevi adesivi”), ingannevole e inaffidabile (“Non credere mai alla città/se fa promesse/No non credere mai alla città/ Ma credi a quel bagliore che è improvviso”).

 

In mezzo ci sono i rapporti di amicizia e quelli affettivi, sempre e comunque con un fondo di amarezza, come un rimpianto di cose passate che non ritorneranno più (“Canzoni per un’altra non ne ho scritte mai/Bruciasse la città io non ti cercherei/Canzoni per un’altra non le scrivo da un po’/Che bruci la città, io non ti cercherò”), con solo una estemporanea fuga in montagna che sembra poter fare da argine ad una progressiva dissolvenza dell’io (“A forza di essere niente/Riesco solo a sembrarmi un po’/Una foto su un libro, un parente/O un amico che è morto/Per un caso fortuito o una scelta/Che poi fino in fondo che cosa cambia?”).

Musicalmente la ricetta è sempre la stessa, vale a dire un Indie Rock che si muove tra la potenza delle chitarre e il fulgore assoluto delle melodie, in mezzo ad accelerazioni Punk, mid tempo dai riff ipnotici e scampoli di ballate semi acustiche. Raimondi e Pedersini sono come sempre inimitabili nel pescare il jolly di un refrain anthemico ed immediato, e anche a questo giro la scaletta è infarcita di potenziali hit (“Per un’altra”, “Non fa male”, “Inconsolabile” e “Iran” dal vivo faranno sfracelli, ne abbiamo già avuto un piccolo assaggio quando le hanno presentate dal vivo a inizio mese).

Il tema trattato però non ammette troppe distrazioni o cedimenti al cazzeggio: qua e là affiora un po’ di ironia (“Amico” sembra avere uno sguardo più aperto e bonario) ma in generale siamo di fronte ad una scaletta molto più serrata e compatta che in precedenza, con brani che possiedono quasi tutti chitarre più aggressive e procedono a ritmi serrati, pur in tutte le aperture melodiche che, come detto, caratterizzano da sempre il suono del gruppo.

 

Ancora una volta niente riempitivi: complice anche l’abituale durata ridotta (siamo sempre sotto la mezz’ora) tutti i brani risultano costruiti e strutturati alla grande, essenziali e senza parti superflue, efficaci anche laddove si mettono in campo soluzioni un po’ più ricercate (è il caso di “Finalmente orso”, coi suoi giochi vocali nella seconda parte, oppure di “Macchina” e “Brilluccichio”, che hanno parti di chitarra e andamento ritmico non del tutto prevedibili).

Quasi commovente, poi, il finale di “Per qualcosa o qualcuno”, che è stato anche il primo singolo ad uscire e che adesso, inserito nel suo contesto di appartenenza, assume un significato più pieno (“Io sono stato al gioco/Ho fatto tutto bene/Ma dentro cresce il dubbio/Che sembra quasi il cuore/Io resto alto così/E non mi sembra di riuscire a cambiare”). Si ritorna al punto di partenza, con quella che era la domanda iniziale: che fine fanno le storie che nessuno ha ascoltato, quando i loro protagonisti hanno lasciato questo mondo nell’indifferenza più totale?

Abbiamo tutti bisogno di relazioni, anche se a volte ci raccontiamo che non è così; c’è chi ha fallito e non può più rimediare, e sono un interrogativo grande, queste esistenze apparentemente buttate via; e poi ci siamo noi, a cui è dato ancora il potere di costruire qualcosa di bello e di utile. Perché la dimensione pubblica e quella privata alla fine si intersecano, vengono quasi a coincidere. E questa splendida ballata, dove per una volta le chitarre acustiche si sostituiscono al fragore delle elettriche, ce lo ricorda per un’ultima volta, alla fine di un disco che parla del nostro mondo con una sincerità disarmante, e che ci chiede di essere ascoltato, nonostante tutta l’amarezza che racchiude in sé.