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REVIEWSLE RECENSIONI
14/11/2023
Volontré
Instant Songs
I Volontré sono un progetto particolare, unico nella forma precaria o nella precarietà della forma, da non confondere per precarietà di contenuti. I testi sono scritti benissimo, senza voler stupire con la tecnica, ma con voci e corde che portano a spasso chi ascolta in un mondo di vignette abbozzate, attente sempre a non delineare troppo a fondo i tratti. "Instant Songs": mozziconi di emozione che stanno nel centro tra il grottesco e il malinconico.

Falca, Milioni e Marina P. Siamo tra Livorno e Parigi. Non nel mezzo, ma un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Alessandra Falca, attrice e cantautrice, anima viva, partecipante ad ogni cosa cui sia possibile partecipare e respirante a pieni polmoni Jannacci, Cochi e Renato, Gaber e tutto quel mondo lì. Emiliano Dominici, scrittore e regista di cui in questo momento sto leggendo il romanzo Gli anni incerti, edito da Effequ, e che sento quindi particolarmente vicino. Marina Peloso, cantautrice livornese e parigina d’adozione, piazzatasi nel mondo del dub e del reggae d’oltralpe con lo pseudonimo di Marina P. I tre collaborano da almeno vent’anni e regalano sempre lampi di passione, idee piccole e semplici che restano a galla nella normalità da cui provengono e arrivano dritte al petto in tutta la loro purezza.

Eccoli i Volontré e le loro radici; un popolo scalzo, colto, passionale e senza peli sulla lingua. Uscito a maggio 2023 per Homey Records, Instant Songs rappresenta una di quelle rarità che meritano di essere conosciute e approfondite, tanta è la particolarità e profondità che ne ha accompagnato la stesura e che emerge all’ascolto. 300 copie numerate in LP, il resto in digitale, per 16 piccoli lampi e mozziconi di emozione che stanno nel centro tra il grottesco e il malinconico; il tutto senza alcuno sforzo o mira di marketing.

 

“No no no” apre le danze e ci mostra la nudità e il sapore puro del progetto. Voci, una chitarra e un divano da tre che fa parte della scena. Poche parole, tre frasi, una piccola evoluzione del discorso che nasce e muore ad un punto qualsiasi, come se non ci fosse bisogno di seguire una struttura per arrivare a lanciare un messaggio, come se si prendesse una porzione casuale di un testo e si musicasse, escludendo il prima e il dopo. Il gioco è riuscire a mantenere la comunicazione nonostante i chiarimenti, le parole che approfondiscono e sottolineano, le spiegazioni, gli inizi e i finali.

«No no non fai più per me (…) No no nostalgia non ho (…) Quel tuo gioco che mi aveva dato un senso vano d’infinito – Oggi mi prendo il mio domani – Che non conoscevo la bellezza di volar sugli aeroplani – Senza te». Una porzione di testo esemplificativa del fascino della semplicità, della profondità della bellezza, della sorpresa di una sospensione. E possiamo invertire la composizione di queste mie parole per arrivare comunque ad un senso incompiuto, ma che basterà per farci annusare i fiori che non si vedono ma non si intuiscono.

Suono rigorosamente asciutto, reverberi artificiali che definirei pressoché assenti. Due minuti e su quel “Senza te” la canzone finisce, lasciando chi ascolta in una posizione di squilibrio prevedibile, fermato e cristallizzato sul punto più alto di un’altalena. Sì, c’è il vento in faccia, l’eco delle parole, le voci naturalissime e prive di ritocchi, belle anche nella sottile imprecisione e disallineamento vocale che inventa una sensazione in più ed imprevista. Forse quell’ultimo accordo lascia solo un po’ così, ma lo sviluppo di quelle frasi lo immagino bello ed è un gioco inventarsi lo strumentale successivo con un fischietto che prende possesso del finale, poco prima di giungere alla conclusione sull’ultimo ritornello.

 

“Quello che è stato” permette di navigare con le sue belle parole in una sottile apatia, come essere in una impercettibile nebbia ma senza rendersene conto tanto è sottile. Sentirsi un puntino nascosto in lontananza.
«Come mai non si sa – Che le strade di Roma nascondono un’altra città – Casomai ti dirò - Che Nerone ha bruciato le case ma il mio cuore no».

L’alto livello della scrittura si contrappone dolcemente alla nudità dell’altro ingrediente, cui stavolta si affianca un rozzo e deciso shaker che tiene vivo un sentimento, destinato forse a seguire le parole e rendersi apatico. Parole dolci e pure, come le mani di una nonna, come arricchite da quel tipo tenerezza.

 

“Non si può” rappresenta forse ciò che più è vicino a canzone completa, col suo piglio da jukebox anni Sessanta, che la fa somigliare chiaramente ad una di quelle canzoni senza che te ne venga in mente una di preciso. Bella, verrebbe voglia di finirla con una sezione fiati, batteria, contrabbasso e pianoforte; magari con i Flippers di Edoardo Vianello.

“Santiago” ci porta lontano solo per un attimo, il tempo di vedere i colori in una strada sterrata, mentre “Questa non è una città” si scolla per la prima volta dal monolite della chitarra che accompagna la voce, aprendosi ad una sovraincisione che sembra un ukulele; è Camilla Furetta, ospite del disco insieme al suo immancabile 4 corde. «Questa non è una città - ma una cartina - che brucia e rimane la cenere», e si respira tanto un già detto anche da altri, in queste parole di un ritornello che funziona e non ti abbandona una volta finito.

“Don’t Judge” si sente che sarà una canzone in lingua straniera sin dalle prime note, anche prima di conoscerne il titolo. Si rivela una bella canzone con Marina in primo piano, una sorta di inno alla libertà di essere, al non essere giudicati per la nostra estetica, che magari sarà anche conseguenza eccessiva della paura del giudizio. «I taste my bitter wine, London’s slowly falling - and so am I - Crowds are following me - and so I hide».

 

“What’s up” ci porta nel mondo della black music: un roots reggae tradotto in italiano nelle strofe e in inglese nei ritornelli e nella coda. «What’s up in the city, What’s up in the streets - everybody needs love». Una frase che sa più di presa di coscienza che di vera risposta alla spietata apatia disegnata nelle strofe. Impossibile non notare l’apporto di una frequenza bassa sul ritornello, un moog che permette di sprofondare nelle strade, nel disagio e nella richiesta d’amore.

I testi hanno una bella e spiccata universalità nel messaggio, al netto del fatto che talvolta sono declinati al femminile possono parlare a chiunque, come accade in “Solidao” con un «da sola» corale che chiude le strofe. Nell’insieme canoro la voce di Dominici è chiara ed è qui che si veste di un’importanza più ampia e in questo senso universale. Il messaggio è condiviso da e per tutti.

«Bye bye boy bye bye bye boy bye» è la leggerezza con cui ci saluta “A quest’età”, vincente come un sorriso, senza contare il piacevole rimando melodico che porta dritti sul finale di “With a little help form my friends” e su quella bellissima melodia discendente finale del “From my friends”. Se tutta la canzone fosse stata leggermente più rallentata e rilassata si sarebbe davvero avvicinata al rimando beatlesiano.

 

Ancora l’ukulele comincia e tiene in piedi la successiva “Pas toujours (feat. Camilla Furetta)”, e l’universalità di prima si riverbera in una piccola torre di Babele, a conferma della diversità di lingue che vengono percorse in questi mozziconi di suoni e sentimenti, che si fanno sempre più interessanti e approfonditi. Strofa in italiano per questo dolce tre quarti dal sapore transalpino. «Bevo soltanto caffè scorretti - per ricordarmi dei tuoi difetti», e se non ti fosse chiaro, visto che so tutto di te, il bene e il male: «Je t’aime Je t’aime - mais pas toujours». Ti amo, ma non sempre.

“Fiche moi la paix” continua il bel filone francese e lo fa con una dolce dichiarazione che sfiora il rude andamento marziale. Tutto va bene se ti vedo, tutto è cupo se non ci sei. Soffro a pensarti altrove eppure c’è un però che resta sospeso finché non torna un confortevole tre quarti che sposa bene la lingua e si dice chiaramente: sempre la stessa storia, i miei occhi aperti ti vedono nel buio della notte, mi soffochi, non capisco il perché. Lasciami in pace. Pezzo adorabile.

«Toujours la même histoire - je te vois dans le noir ­- tu me chuchotes. Fiche moi la paix»

 

In “Bene” si riconosce l’incredibile apporto creativo di una punta di diamante della vocalità, Marina Mulopulos; lo si capisce dal greco, ma anche dal ritmo inusuale in cui vengono forzate con maestria le parole. Ascoltare per credere. «Non ti so dire perché - quello che sento per te - cambia come un calendario che non ha più settimane».

«Il passato è un salvagente, ma dipende dal movente del presente». “Trappola” si ricorda per quest’ispirazione e “Dubito” per il suo piglio più elettrico e scapestrato, grazie al contributo dell’altro ospite, Jackie, che accompagna una delle melodie più riuscite e di richiamo Sixty dell’intero progetto; una canzone che sarebbe stata tranquillamente a casa propria nelle note di Rita Pavone.

 

Nessun doppio ritornello, nessun bridge, nessuno special. Intro, strofa e ritornello. Il finale arriva e ci saluta. “Anatema Tiè” prende la forma di un saluto dato bene, prima di uscire per i bis e magari rientrare, e in effetti è forse il brano più completo, sia strutturalmente sia sotto l’aspetto della sensazione che lascia addosso. Un vero manifesto di questo progetto curioso e unico nel suo genere. Il ritornello richiama il “ge-ghe-gè” e poco prima il coro maschio/femmina «Io non ci sto più, tiriamoci su» inchioda nella precisione e freschezza di un’armonia semplice e riuscita.

I Volontré escono e si prendono i meritati applausi, ma un bis ce lo devono, ed ecco che “La catena alimentare” comincia con un’intro di chitarra che ricorda curiosamente “Exit music (For a film)”, il capolavoro dei Radiohead, solo appena velocizzato. E ci può stare il piccolo riferimento, se non per la maestosità del paragone, almeno per l’effetto mantello che si prendono queste voci cantando il finale tutte insieme. Il disco si allarga appena e diventa un paese, dove prima di andare a letto, gli ultimi puri fanno l’ultima chitarra e voci. Si respira la Sicilia, il calore umano in una fresca sera d’estate che comincia a farsi appena più da brividi autunnali.

 

I Volontré sono un progetto particolare, unico nella forma precaria o nella precarietà della forma, che è importante sottolineare non debba essere confusa per precarietà di contenuti. I testi sono scritti benissimo, senza voler stupire con la tecnica, ma attaccandosi affettuosamente a chi ascolta. Le voci e le corde portano a spasso chi ascolta in questo mondo di vignette abbozzate, attente sempre a non delineare troppo a fondo i tratti.

Parlando di un’altra tecnica, quella del suono, è vero, manca un po’ di aria. Anche comprendendo la giusta scelta di non blindare delle canzoni pure in nessuna forma di sovra-arrangiamento o produzione, ma la mancanza di un sottofondo arioso, di un reverbero pensato e forte, presenta alla resa dei conti un ospite imprevisto: le canzoni sono poco propense ad essere ricordate, o comunque ricercate (e ritrovate) dentro chi ascolta grazie a una loro sensazione unica. Lo spirito non volteggia. In questo modo resta addosso all’ascoltatore una leggera sensazione ostica, che mal si sposa con questi piccoli gioiellini di canzoni; un po’ come se fossero state asciugate fino a disidratarsi. Personalmente però, premio sempre la purezza, il coraggio, la scelta di mostrarsi nudi. E i Volontré, con le loro Instant Songs, hanno impacchettato per noi tanti piccoli regali.