“Ascoltateli su disco e dal vivo. Quando li incontrerete, dite loro che vi manda Duke”.
(Duke Robillard)
Era probabilmente da tempo che bolliva nella pentola delle idee della famiglia Ozdemir l’intento di dar vita alla propria musica, cristallizzare quei meravigliosi momenti sonori, testimonianti i loro meccanismi ben oliati, il livello così ottimale raggiunto nelle performance e jam session. Non si spiegherebbero altrimenti la fluidità della scaletta, gli ospiti azzeccati, i soli di chitarra così sentiti; ma potrebbe essere vero anche il contrario, che tutto risulti talmente fresco e genuino in quanto strappato da anima e cuore in un istante, vista la sintonia, la passione e la facilità con cui padre e figli si sono sempre approcciati al blues, la musica che più amano e alla quale hanno dedicato la vita. Alla fine qualunque sia la verità, o se essa stia nel mezzo di tali riflessioni poco importa, ciò che conta è il risultato, e sicuramente la coesione maturata grazie a tutte le esperienze, sui palcoscenici europei e non, ha trasformato in una macchina perfetta e abilmente collaudata quella che sfreccia in questo disco, Introducing the Ozdemirs.
Avere un gigante del genere come Duke Robillard a fungere da “raccomandatore”, un personaggio che ha fondato i Roomful of Blues, fatto parte dei Fabulous Thunderbirds, lavorato per Bob Dylan e Tom Waits e intrapreso una carriera solistica straordinaria, non può far altro che enfatizzare l’immenso valore di questi “ragazzi”, pronti a scegliere in qualità di opener per il loro progetto un classico nientepopodimeno di "Lowell Fulson, Teach Me", plasmato a propria somiglianza, ben sostenuto dall’Hammond organ di Simon Oslender. La voce di Kenan si distingue per timbro e originale interpretazione, la sua chitarra è sopraffina, le sue mani scorrono fra i tasti, reminiscenti della lezione dei fratelli Vaughan, di Robert Cray e Doyle Bramhall II, mentre il basso di papà Erkan e la batteria di Levent non perdono un colpo.
"Tired of My Tears", un tiratissimo R&B dalle sfumature gospel, arriva invece dall’inossidabile repertorio di Ray Charles, siamo nei primi anni Settanta, ed è un brano che sta a cuore anche a Susan Tedeschi, la quale lo ripropone nel suo Hope and Desire, nel 2005. La prima grande sorpresa giunge con "That’s How It is", un motivo sontuoso di ampio respiro che sembra uscito dalle paludi fluviali del Texas, quando in realtà porta la firma di Kenan Ozdemir; atmosfera e arrangiamento perfetti, alla pari di un’altra vetta del disco, l’incursione nel mondo soul intitolata "Simply Beautiful".
“Ci siamo divertiti un sacco, nelle nostre interpretazioni abbiamo semplicemente tirato fuori la bellezza di quelle canzoni”. (Erkan Ozdemir)
Semplicemente meravigliosa, come dar torto a babbo Erkan, raffinato musicista tedesco di Munster, turnista e organizzatore di tour per pregiati artisti americani ed europei in tutto il Vecchio Continente ormai da decenni? La cover di Al Green brilla per intensità e passione, illuminata dal piano dell’italianissimo Alberto Marsico, coproduttore insieme agli Ozdemirs (a proposito, l’intera opera è stata registrata da Carlo Miori a Rivalta di Torino, presso lo studio Good Sound), ma dopo una toccante ballata si riparte forte, con il pedale dell’acceleratore schiacciato a fondo per far salire i giri del ritmo. Arriva di gran lena, infatti, il funk inarrestabile di "Tell Me What’s on Your Mind", sentito tributo ai leggendari Meters e all’irraggiungibile Leo Nocentelli, vero e proprio trademark per il groove R&B e trampolino di lancio per i fiati di Sax Gordon, capitano degli ottoni spalleggiato da Bira Junior e Bruno Belasco.
La varietà delle influenze, la sapidità del background degli Ozdemirs si declina nel piatto musicale proposto, che dopo esser stato sapientemente profumato con schegge sonore aromatizzate al gusto di New Orleans, storico luogo crocevia di culture migranti e culla del jazz, prosegue il volo di declinazione funky con la ripresa di "Burnt Toasts & Black Coffee" di Shorty Long, prima di atterrare nuovamente in zone dall’approccio dichiaratamente soul: eccoci a "I’m Gonna Tear Your Playhouse Down", esempio lampante del Memphis sound, perla inventata dalla penna rovente di Earl Randle, registrata nel 1972 dalla mitica Ann Peebles e diventata una hit dodici anni dopo per opera dell’inglese Paul Young, storica icona pop-new wave degli anni Ottanta.
Country, rockabilly, soul jazz e naturalmente blues si incrociano nella rutilante "Midnight Blues", con gli ottoni sgargianti, la deliziosa Ilaria Audino ai cori e Christian Dozzler al piano; si tratta di una bellissima composizione di Charlie Rich, peso massimo della tradizione americana connesso a Jerry Lee Lewis e Carl Perkins, mentre "Heap See" è un brano di Jimmy Johnson, volto meno conosciuto della scena di Chicago, tuttavia con un curriculum di grande spessore, frutto di esibizioni al fianco di Freddie King, Magic Sam, Albert King e Otis Rush. Gli Ozdemirs si avvalgono dei vocalizzi della bravissima Trudy Lynn per rendere epica la loro versione, che merita un plauso particolare per gli assoli ispirati di Kenan, davvero vicini per piglio e intensità a quello dei maestri Robert Cray e Buddy Guy.
Introducing the Ozdemirs si chiude con la riproduzione strumentale di "Tell Me What’s on Your Mind", già presente a metà scaletta, incandescente palcoscenico per fiati, Hammond e base ritmica, esaltati dai virtuosismi di un forsennato Kenan. Non c’è tempo per fermarsi a pensare o crogiolarsi su quanto raggiunto e inciso, gli Ozdemirs sono fatti così, ogni giorno è buono per un’altra avventura e la strada lungo l’Europa chiama, dalla Norvegia all’Italia, tra alcune sfiziose location in Spagna e una manciata di date in Polonia: il tragitto prosegue perennemente per una family band dalle mille risorse, guidata dalla sfrenata passione per il blues e la consapevolezza che niente è più gratificante di una vita on the road, quando e laddove si possono condividere sentimenti e profonde emozioni con persone di differenti longitudini, ma con lo stesso e identico cuore, con anima e spirito anelanti a un orizzonte senza fine, simbolo di continua ricerca.