I supergruppi sono una brutta storia. Non ho niente in contrario a priori ma il rischio è che operazioni di questo genere vengano spesso messe in piedi nel tentativo di raggranellare qualche soldo in più da parte di artisti dal nome celebre che, appunto, sfruttano la propria fama per risollevare le fisiologiche battute d’arresto delle loro lunghe carriere.
Questi Filthy Friends forse sono un’eccezione, considerato che sono in giro dal 2012 e che solo recentemente hanno messo mano al loro disco di debutto.
Formazione molto variegata, visto che comprende Peter Buck dei R.E.M, Corin Tucker delle Sleater-Kinney, Kurt Block e Scott Mc Caughey dei Minus 5 e, dulcis in fundo, Bill Rieflin dei King Crimson. Come dire, non esattamente la gente che ti aspetteresti a ritrovarsi insieme per scrivere canzoni.
Lo scorso autunno avevano già fatto uscire Despierta, che ora ritroviamo in veste di opener e che era stata concepita nell’ambito delle solite iniziative che ogni artista in quanto tale si è sentito in dovere di portare avanti per protestare contro l’elezione di Trump. Il brano è un rock potente ed energico, dai tratti moderni e con un ritornello agile e facilmente cantabile. Non un capolavoro ma comunque abbastanza piacevole.
Ora che abbiamo tra le mani l’intero disco, qualche considerazione più precisa la possiamo anche fare ma, lo dico subito, non si va molto più in là del giudizio appena espresso.
Personalmente mi sono avvicinato a questa band solo ed esclusivamente per la presenza di Peter Buck, perché il chitarrista è uno di quei nomi che va ad impreziosire sempre i lavori a cui mette mano (i suoi dischi coi Tired Pony, per dire, mi erano piaciuti molto). In questo lotto di canzoni, tuttavia, la presenza del musicista di Athens non risulta così decisiva, fatta eccezione per un paio di brani (Faded Afternoon, Any Kind of Crowd) che sembrano usciti direttamente dal songbook dei R.E.M.
Più che altro, questo incrocio così particolare tra anime musicali diverse avrebbe anche potuto partorire idee interessanti e invece ha scelto di giocare la partita nel modo più semplice possibile. Invitation è, a conti fatti, un disco rock di basse pretese, che insiste sui soliti stilemi di songwriting e utilizza suoni e produzione moderni per poter essere il più possibile al passo coi tempi. È un disco ben scritto, ben suonato, sufficientemente agile nella formula e nella durata (40 minuti scarsi) e che si fa dunque ascoltare più che volentieri.
Ci sono canzoni che strizzano l’occhio al Pop da classifica (i due titoli già citati, Second Life), altre che si muovono su coordinate Hard Blues (Come Back Shelley), altre maggiormente debitrici del sound FM (You and Your King), e altre ancora che, come il singolo apripista, si mantengono su sonorità più rocciose e “moderne” (l’altro singolo The Arrival, Windmill, Makers). In chiusura, la title track si configura come l’unico episodio totalmente estraneo al resto del lavoro, col suo feeling da ballata Swing e l’andamento leggermente ironico.
Bravi tutti i musicisti coinvolti, Corin Tucker usa la voce sempre molto bene, Peter Buck fa un bel lavoro, quando si ricorda di essere Peter Buck e anche gli altri non sono da meno, pur raggiungendo il massimo risultato col minimo sforzo.
L’impressione è, appunto, che sia troppo poco. Sono le idee quelle che mancano. Non basta scrivere canzoni che fanno battere il piede e facili da canticchiare dopo mezzo ascolto perché quando il disco smette di girare ci si accorge che è stato tutto lì, che il significato del lavoro si è esaurito nell’ascolto e che non c’è davvero nessuno strato ulteriore da penetrare, nessun significato profondo da scoprire.
Mi auguro che i cinque si siano divertiti molto a farlo perché noi di sicuro ce ne dimenticheremo in fretta.