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REVIEWSLE RECENSIONI
Ira
IOSONOUNCANE
2021  (Sony Music / Panico SRLS)
IL DISCO DELLA SETTIMANA ALTERNATIVE ITALIANA POP
9,5/10
all REVIEWS
25/05/2021
IOSONOUNCANE
Ira
È banale dirlo e rischio pure di fare la figura dello snob ma temo che “Ira” sarà un disco molto più discusso che ascoltato. Qualcuno in questi giorni mi diceva, con un paragone letterario, che farà la fine di “Infinite Jest”: capolavoro conclamato, poi vai a vedere chi effettivamente l’abbia letto da cima a fondo e si dileguano tutti. Dopotutto l’abbiamo visto già da venerdì mattina, o sbaglio? Le bacheche intasate di pareri, in un senso o nell’altro, senza che si riuscisse a capire dove mai ci si fosse ritagliati il tempo per sorbirsi, anche solo per una volta, un tale mostro di lunghezza.

Già, perché probabilmente del terzo capitolo discografico del progetto Iosonouncane, si citerà soprattutto la scelta del formato: doppio cd o triplo lp per un’ora e cinquanta minuti di musica sono un qualcosa di totalmente altro rispetto a quel che da anni impone il mercato. Non è necessario spiegarsi ma mi affascina troppo questa cosa, non riesco a passarci sopra: in un’epoca in cui i singoli vincono sugli album, in cui gli album, quando anche escono, raramente superano la mezz’ora di durata, soprattutto in Italia, in un’epoca in cui sono le playlist a tema a farla da padrone, dove le giovani generazioni non sono più abituate a fruire un insieme di canzoni legate da un discorso concettuale, l’artista sardo se ne esce con un lavoro che non solo non viene anticipato da singoli (la “Novembre” uscita lo scorso autunno era in realtà un vecchio pezzo mai inciso) ma che sembra volutamente discostarsi da qualsivoglia paradigma commerciale.

Non è una novità, se si conosce bene Jacopo Incani: già “Die”, pur nella durata canonica, era totalmente estraneo alla direzione che l’Indie italiano stava prendendo ai tempi, e stiamo comunque parlando di un artista che, quando tutti facevano a gara per firmare improbabili libri per monetizzare il più possibile la raggiunta popolarità, dichiarava più o meno: “Sono un musicista, mi occupo di fare dischi, i libri preferisco lasciarli a chi lo fa di mestiere”.

Aggiungiamo che in undici anni ha fatto uscire tre album completamente diversi l’uno dall’altro (solo ad un attento ascolto ci si accorge di dettagli che li riconducono al medesimo autore) e capiremo una volta per tutte chi abbiamo di fronte.

E allora parliamo di “Ira”. Che è il frutto di un processo di lavorazione molto lungo, come del resto anche il precedente, e che avrebbe dovuto essere presentato in anteprima nei teatri, con un’esecuzione integrale dal vivo. Sappiamo bene che cosa è successo e sarà difficile liberarsi dal rimpianto di quel che avrebbe potuto essere ascoltarlo seduti in poltrona per la prima volta, senza nessuna mappa, senza nessun indizio. Ma chissà, probabilmente è stato meglio così, visto che quando dopo l’estate l’esperimento verrà recuperato, saremo tutti più ferrati e riusciremo a godercelo appieno.

“Ira”, a detta dello stesso autore, porta alle estreme conseguenze quel processo di graduale scambio musica/parole all’interno di un’astratta gerarchia d’importanza: se “La macarena su Roma” era un lavoro al limite del verboso, che riprendeva, spesso infarcendolo con la satira e la sperimentazione d’avanguardia, il discorso “impegnato” di un certo cantautorato anni ’70; laddove invece “Die” cominciava a mettere in secondo piano i testi (nonostante fosse poi un concept vero e proprio, con una storia compiuta) in favore di un linguaggio musicale certamente debitore al Battisti di “Anima latina” ma anche ad un certo Rock progressivo di marca italica, “Ira” vede la scomparsa più o meno definitiva del linguaggio, con le parole (un miscuglio apparentemente casuale di inglese, francese, spagnolo e qualcosa di non identificato che potrebbe essere arabo) scelte più per un discorso fonetico (la pronuncia oltretutto è spesso volutamente scorretta) piuttosto che semantico (a leggere tutto, ci si ritrova con diverse immagini evocative ma è impossibile seguire il filo). Le linee vocali, affidate a quasi tutti i sette musicisti che si sono occupati delle registrazioni, non sono mai in primo piano (sebbene le parti cantate occupino uno spazio non irrilevante), in una ideale fusione con le parti strumentali, con l’approdo ad una dimensione proto linguistica che potrebbe ricordare a sprazzi quanto fatto da David Byrne e Brian Eno nel loro “My Life in the Bush of Ghosts” o anche le più recenti follie del collettivo belga Neptunian Maximalism.

Meglio chiuderla subito con i riferimenti, però. Ne abbiamo letti di ogni, in questi giorni, in un’inveterata reiterazione a trovare paragoni rassicuranti per illuderci di comprendere meglio quel che invece resta incomprensibile.

“Ira” assomiglia a tutto e non assomiglia a niente, perché Jacopo ha messo dentro tutto ciò che ha amato nel suo ultratrentennale percorso di formazione musicale, prima come ascoltatore, poi come autore ma ha metabolizzato il tutto talmente bene da averlo sintetizzato in un insieme che suona il più possibile personale, per quanto sembri assurdo fare un’affermazione del genere nel 2021. Certo, lui ti citerà “Rock Bottom” di Robert Wyatt e “Kid A” dei Radiohead, così come altri hanno tirato in ballo il Battiato dei primi lavori, il Post Rock o tutto il mondo delle colonne sonore, da Morricone a Carpenter.

Tutto vero, tutto falso. Se dovessi partecipare anch’io a questo gioco divertente quanto inutile, farei un solo nome: gli Swans. Ma più per un’affinità metodologica piuttosto che per un’adesione convinta a comuni principi stilistici. La band di Michael Gira ha da sempre avuto una passione per la dilatazione e la ripetizione, soprattutto i loro ultimi quattro lavori (tutti doppi) vivono di spazi cosmici e reiterazioni infinite.

Ma se lo si guarda da vicino, si scoprirà che neppure questo è vero. “Ira” rimane comunque un disco di canzoni, che hanno sì una durata media piuttosto elevata (sei-sette minuti) ma che sono costruite sull’alternanza strofa-ritornello o per lo meno su una melodia portante, molto di più di quanto si sarebbe portati a credere. È un disco pieno di contenuti, dove succedono tante cose diverse e dove gli interludi, i momenti di passaggio, gli outro e gli accordi ripetuti, non hanno poi questo grande ruolo.

Non è un disco sperimentale in senso stretto e da questo punto di vista, chi si aspettava un disco di avanguardia (“coraggioso”, hanno detto alcuni) è rimasto senza dubbio deluso.

Sembrerà assurdo, ma io penso che alla fin fine “Ira”, nel momento in cui si riesce ad accettarne l’enormità della durata, sia un disco semplice, decisamente fruibile.

Ripeto, non ci sono sperimentazioni, dissonanze o suoni strani, la bellezza sta spesso nel vedere come i vari strumenti si intrecciano tra loro, nel sorprendersi per una melodia che emerge improvvisamente da una stratificazione sonora spesso plumbea e si fa ammirare per qualche secondo, prima di scomparire. Ci sono il Synth e il Mellotron sempre presenti, che fanno da collante alle varie parti, a volte ci sono delle code strumentali che contribuiscono ad avvalorare la tesi delle colonne sonore come influenza. Il più delle volte però, succede quello che succede quando si ascolta una canzone: ci emoziona una melodia, ci colpisce una parte strumentale o un arrangiamento particolarmente indovinato.

Perché “Ira” è costruito secondo una geniale ambivalenza: i diciassette pezzi che lo compongono hanno un senso compiuto e potrebbero tranquillamente essere ascoltati uno per uno, come fossero singoli. Allo stesso tempo, essi sono strettamente interdipendenti e l’ascolto consecutivo e ininterrotto dell’opera offre l’impressione di trovarsi davanti ad un’unica suite.

Una suite dove non è però difficile trovare dei punti d’appoggio: al di là degli accordi di piano che arrivano ogni tanto a punteggiare i tappeti di Synth, creando paesaggi astrali di indicibile bellezza (sentire ad esempio “Pétrole”, che da sola basterebbe a smontare l’assunto che sia un disco difficile), ci sono diversi momenti indimenticabili dal punto di vista melodico. Vada su tutti “Hyver”, una canzone di totale struggimento, con una magnifica apertura orchestrale nella seconda parte; oppure “Horizon”, “Nuit” e “Soldiers”, vere e proprie ballate, incentrata sulla chitarra la prima, sul piano la seconda, più orchestrale l’ultima; o ancora “Piel”, uno dei pochi episodi leggermente accelerati, che apre il secondo cd all’insegna di una maggiore leggerezza. Da ultimo (ma potremmo andare avanti), “Sangre”, in assoluto tra le cose migliori, con tutti gli elementi fusi insieme alla perfezione, dalla linea vocale che crea un mantra irresistibile, all’elettronica, alla chitarra acustica di Bruno Germano (che ha anche prodotto il disco assieme allo stesso Jacopo), alla ritmica pulsante delle percussioni.

Zero sovraincisioni, massima limpidezza: questo è un disco che, a detta dell’autore, è stato pensato per essere eseguito così come lo sentiamo, dai sette elementi che lo hanno suonato (si tratta della versione allargata della band che ha suonato su “Die” e che lo ha accompagnato nel relativo tour). Per cui quel che accade è che si ascoltano musicisti che interagiscono tra loro e generano bellezza: che si tratti dei ritmi ossessivi dati dalla fusione tra elettronica e percussioni, o delle esplosioni tribali con tanto di cori, vocalizzi e archi che riempiono il tutto (“Jabal”), degli sporadici sconfinamenti nel Free Jazz (“Ojos”, “Prison”), delle salmodie arabeggianti in chiave notturna (“Foule”), c’è tanta di quella roba in queste quasi due ore che si fatica a comprendere come si possa trovare il tempo per annoiarsi. Fino ad arrivare ad “Hajar”, undici minuti monumentali, ideale riassunto di tutto quel che si è ascoltato in precedenza e che, se è vero che ogni singolo episodio è un microcosmo che contiene in sé la totalità del disco, allora potrebbe essere la cosa migliore da ascoltare se non avete tempo di sorbirvelo intero ma volete comunque capire di che cosa si tratti.

Non si tratta di un lavoro luminoso: il sole e il mare del Mediterraneo sono rimasti dentro “Die”; qui ci si muove in un territorio ora gelido, ora semplicemente buio, una penombra senza tempo dove vagano anime che sembrano aver perso ogni desiderio, ogni aspettativa, persi in una solitudine dove si rievocano ricordi piacevoli ma dove il presente ha la stessa immagine della copertina: completamente nera, con quella che appare la radiografia di un uomo nudo a delinearsi incerta sullo sfondo.

Dovessimo trovare un difetto, diremmo che alla lunga le soluzioni sono un po’ sempre quelle e che, spalmate su uno spazio così ampio, rischiano di risultare un po’ ripetitive. Sono dettagli, però. Quel che rimane è un’opera gigantesca, la cui portata si delinea già dai primi ascolti (ho scritto questa recensione appena terminato il sesto) ma che occorreranno anni per poterla davvero comprendere ed assimilare.

È un problema? Direi proprio di no. Qui si gioca in un altro campionato, per usare una celebre metafora: chi è seguace dei soliti meccanismi non si avvicinerà mai ad un disco così; ma, ripeto: non lo farà perché non avrà tempo, non perché è troppo strano perché possa piacergli. “Ira” è per chi ama ancora il formato fisico, per chi non concepisce il concetto di “Playlist”, per chi pensa che riascoltare all’infinito le solite cose sia segno di pazienza e dedizione, non di scarso interesse verso le novità.

Ancora una volta Jacopo Incani ha fatto quello che desiderava fare, ancora una volta ci ha fatto vedere che cosa sia la libertà creativa, quella vera. Al momento per me è il disco dell’anno. Probabile che sentirlo dal vivo sarà il concerto dell’anno.


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