Che i Pineapple Thief sarebbero tornati con un nuovo disco lo avevamo saputo dallo stesso Bruce Soord, che in Italia per il suo tour solista aveva parlato di una futura data italiana a marzo.
It Leads to This dovrebbe rimettere le cose al loro posto, in casa della band britannica: Versions of the Truth era arrivato in piena pandemia, il tour era stato sostituito dal live stream Versions of the Truth (con tutto il rispetto, speriamo davvero di non dover più vedere operazioni del genere), anche se poi il quartetto era riuscito, molto coraggiosamente, a portare a termine un breve giro di concerti in Europa (erano passati anche dalle nostre parti, per fortuna). A bocce ferme era poi arrivato Give it Back, una raccolta di vecchi pezzi in versione rewired, un utile pretesto per farci suonare sopra Gavin Harrison, che della line up fa parte solo dal 2017.
Bruce Soord si è quindi dedicato al suo disco solista e al relativo tour, Harrison ha finito l’estate scorsa di girare il mondo coi Porcupine Tree: qualche mese per ultimare il disco lo hanno finalmente trovato e dunque eccoci qui.
Per la verità le canzoni di It Leads to This sono in lavorazione da almeno tre anni, stando a quel che ha dichiarato il cantante e chitarrista: plausibile, per uno che ha sempre concepito il songwriting come un laboratorio permanente.
Il sedicesimo (o diciassettesimo, ho perso il conto) disco in studio degli inglesi non presenta particolari novità. C’è la solita scrittura elegantissima di Soord, gli elementi Progressive svolti sempre all’interno di un contesto “moderno”, focus sulle melodie, scarsa propensione ai virtuosismi e alle soluzioni eccessivamente cervellotiche, un certo gusto Art Rock che si sposa bene con la sensibilità minimalista che in queste dieci canzoni appare particolarmente viva.
È apprezzabile anche il suono secco, a tratti arido, con un Gavin Harrison che come sempre contribuisce a dare personalità ai brani, un drumming diverso rispetto a quello adoperato nella sua band principale, qui molto più al servizio delle visioni di Soord, ma comunque sempre in grado di personalizzare a suo modo le composizioni.
In una sorta di ideale continuazione con i temi del recente Luminescence, il cantante prova a riflettere sulla situazione presente del mondo, a capire che ne sarà della generazione successiva, anche sulla scorta di citazioni letterarie (Stoner di Williams, un romanzo che con questi temi gioca alla grande) e storiche (le vicende della Roma antica sono evocate in più di un’occasione).
Funziona tutto molto bene, senza sussulti ma neppure senza cali, una continua sensazione di classe e raffinatezza a cui il gruppo ci ha da tempo abituato, un’ispirazione che non è affatto venuta meno e che, se la paragoniamo al disco precedente, sembra addirittura essersi accresciuta. Lo vediamo già nell’opener “Put it Right”, delicato piano e voce della prima strofa, la batteria che entra in un secondo tempo ed impone un groove lento, quasi ipnotico, il solenne minimalismo del ritornello, il modo appena accennato in cui entra la chitarra distorta, con le sue pennate discrete. Oppure “Rubicon”, più robusta nell’attacco, una splendida accelerazione nel ritornello, per quello che è forse l’episodio che più richiama alla mente il classico songwriting dei Porcupine Tree.
Bella anche la title track, alta quota emozionale soprattutto sul chorus, Neo Prog da manuale senza nulla di nuovo da proporre, ma con una credibilità tale da non lasciare campo ad alcuna obiezione.
“Every Trace of Us” ha una notevole urgenza drammatica ed una parte strumentale più intricata delle altre, “The Frost” è invece quella col refrain più immediato, in linea col suo ruolo di singolo apripista.
Insomma, il solito disco dei Pineapple Thief, senza dubbio più prevedibile rispetto agli esordi (ma non è un segreto che negli ultimi tempi Bruce Soord abbia voluto cimentarsi con un songwriting più tradizionale) ma sempre di alto livello, con una grande prova anche da parte degli altri due componenti, il bassista Jon Sykes (che ha accompagnato Soord nel suo ultim tour solista) e il tastierista Steve Kitch.
Non resta altro che andarli a vedere a marzo, anche perché in sede live sono ancora più convincenti.