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REVIEWSLE RECENSIONI
It's A Beautiful Place
Water From Your Eyes
2025  (Matador)
IL DISCO DELLA SETTIMANA INDIE ROCK
7,5/10
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01/09/2025
Water From Your Eyes
It's A Beautiful Place
Sull’onda dei fasti di Everyone’s Crushed, l’album del 2023 che li ha consacrati veri paladini dei circuiti alternativi, i Water From Your Eyes tornano con un disco convincente ma, se possibile, ancora più destabilizzante.

A parte qualche rara eccezione, l’art rock dei newyorkesi Water From Your Eyes da sempre si caratterizza per una totale dedizione a una sperimentazione pura e militante ma tutt’altro che di maniera e fine a se stessa. 

A scartabellare tra la loro già corposa produzione, tre ellepi ufficiali a cui si aggiunge un ricco catalogo precedente popolato da raccolte autoprodotte, raramente si trovano composizioni rassicuranti dalla prima all’ultima nota e, all’interno delle tracce, i punti di riferimento a cui normalmente ci si aggrappa per individuare l’ingresso e l’uscita degli ascolti, o almeno una corsia di emergenza in cui accostare per riprendere fiato. Paradossalmente, è solo l’incipit del loro album d’esordio (Structure, pubblicato nel 2021), quella rassicurante ballad dal titolo “When You’re Around” che con il suo milione e rotti di streaming ha alimentato verso il duo composto da Rachel Brown, voce, e Nate Amos, tutto il resto, non poche aspettative nel circuito indie-pop tradizionale.

Per il resto, l’impressione più ricorrente che si trae dalla loro musica è quella di trovarsi al cospetto (sono parole loro) di remix di canzoni che non esistono. Un non-genere e un’efficace formula che ha reso i Water From Your Eyes una delle band più originali del momento, con una proposta che, al netto di qualche piccola ingenuità volta a elevare costantemente il più in alto possibile la smania di ricerca, li mette al riparo da qualsiasi tentativo di imitazione. 

 

Ancora una volta, le canzoni di It's A Beautiful Place suonano come brani completamente destrutturati privati del senso proprio (scarnificati cioè da ogni parvenza di consuetudine pop) e lasciati in balia di un senso traslato che li permea di valore modificato e riconducibile ad altro ordine. Anche le intro e gli interludi che, nel disco, si alternano alle tracce vere e proprie riflettono la curiosità con cui la band si insinua nelle dimensioni parallele della musica come la conosciamo. Un’indole radicalmente alternative che però ha assicurato a Brown e Amos un ruolo di tutto rispetto nelle scuderie della Matador Records e una ormai consolidata vicinanza artistica a pezzi da novanta come gli Interpol, band di cui sono stati supporter in tour. Gira voce che abbiano persino suonato al matrimonio di Paul Banks.

Il nuovo disco conferma che lo spirito di fondo dei Water From Your Eyes sia un sincero “queste sono le chiavi, fate quello che volete”, un potere assoluto esercitato con originale fantasia senza lasciare spazio ad abusi e sconfinamenti nel cattivo gusto. Ne risulta un’opera sorprendentemente raffinata, complice la sua brevità, poco più di venti minuti al netto dei riempitivi strumentali, ma incredibilmente traboccante di idee.

 

L’ossatura di It's A Beautiful Place è composta sostanzialmente da sei brani in cui la band mette a frutto la migliore arte decostruttivista. In “Life Signs” (a cavallo tra Killing Joke e Stereolab, “Nights In Arbor”) vero compendio di asimmetricità, e “Born 2”, una versione in plastica di una hit nu-metal post-grunge depotenziata di testosterone e caratterizzata da un finale con cassa in sedicesimi, è la chitarra a essere la vera protagonista, l’espressione del versante più alternative rock della band.

Con “Spaceship” il duo rientra in una parvenza di ordine, nonostante le parti capovolte di batteria e la pura follia espressa dai rumori digitali e dai sussulti elettrici, mentre “Playing Classics” adotta i cliché della musica da dancefloor (cassa dritta, basso in levare, piano cheap, sequenze di synth e un’efficace taglia e cuci nell’alternarsi delle parti) per dare vita a un sofisticato tormentone pop, smentito dalla title track a cui è collegato, appena cinquanta secondi di un impulsivo hard rock melodico. 

Fino a “Blood On The Dollar”, l’ultima traccia dalla parvenza di canzone, il fraintendimento di un brano country rock americano. Come se qualcuno avesse descritto a parole e versi a un’entità aliena una traccia di Neil Young e l’entità aliena, solo sulla base delle istruzioni fornite e senza alcun riferimento registrato, avesse provato a riprodurla. 

 

Ne risulta la vera forza della band, quella di proporre costrutti sonori in cui il canto di Rachel Brown, nel suo variare tra rade melodie, martellante voce robotica e un parlato/rap davvero poco attendibile, risponde agli spunti di Nate Amos che poi, in fase di realizzazione finale, gioca a rivoltare radicalmente i connotati delle canzoni. Un progetto che, tra nonsense sci-fi e visioni evocative, tra groove sfatti e melodie improbabili, restituisce nella sua apparente incoerenza le emozioni di una tentacolare entropia, un luogo incantevole ma, allo stesso tempo, spietatamente desueto.