“Se dovessi morire domani, quali canzoni vorrei aver pubblicato?” (Matt Bigland)
La domanda può sembrare retorica, oppure uno di quei giochi filosofici dai risvolti psicologici per capire che strada prendere nella vita, ma nel caso di Matt Bigland e dei suoi Dinosaur Pile-Up è terribilmente pragmatica. Dopo aver pubblicato nel 2019 il loro bellissimo album Celebrity Mansions, acclamato dalla critica e dal pubblico, lasciapassare ad una major (Parlophone) e ad un tour negli Stati Uniti di spalla a giganti del mainstream come Offspring e Sum41, i Dinosaur Pile-Up erano pronti a capitalizzare il risultato e fare il salto: da piccola band grunge rock alternative di Leeds a nome di medio livello conosciuto da una fetta di pubblico decisamente maggiore. Con canzoni come “Back Foot” e “Trash Metal Cassette”, che hanno spopolato nelle radio americane e nelle playlist di Spotify, il passo verso la popolarità era breve, bastava qualche tour e un album entro un paio di anni al massimo.
Il destino ha però voluto scrivere una storia diversa: nel 2020, dopo un tour estenuante, un generale esaurimento e l'incapacità di ascoltare i segnali di allarme del proprio corpo, al frontman Matt Bigland è stata diagnosticata prima (erroneamente) la malattia di Crohn e, successivamente, la colite ulcerosa (una malattia infiammatoria cronica dell'intestino) che ha comportato diversi ricoveri in ospedale, perdita di peso, emorragie interne, piaghe in bocca, gola e in tutto il corpo e persino la necessità di asportare parti della lingua per effettuare degli esami. Nel reparto di terapia intensiva in cui era stato portato c’erano sei persone e tre non ce l’hanno fatta. Matt ha trascorso nel complesso cinque anni di malattia e difficoltà.
E mentre la salute fisica e mentale del frontman peggiorava in modo pericoloso, il suo stoicismo faceva sì che, quando gli veniva chiesto come stava, lui rispondeva semplicemente: “Sono stato meglio”. Quelle parole, un po' standard e minimizzanti, a qualche anno di distanza e con una salute di nuovo sotto controllo, danno il titolo all'eccellente ritorno dei Dinosaur Pile-Up: I’ve Felt Better.
I’ve Felt Better è una liberazione catartica che rende onore a una band e un frontman ancora qui con noi contro ogni previsione, ma anche una celebrazione del loro cambio di prospettiva: da una ricerca della celebrità, ad un approccio alla vita molto più legato alle priorità fondamentali. Arrivato a poter comporre di nuovo assieme ai suoi compagni di band l’approccio è stato uno solo, che Matt sintetizza così: “Se dovessi morire domani, quali canzoni vorrei aver pubblicato? Ovviamente, questo disco è stato strano perché in un certo senso era proprio quella situazione. Cioè, potrei davvero morire. Ma penso che artisticamente sia un ottimo modo per scegliere le canzoni, realizzare album e anche solo operare come persona creativa”. E aggiunge: “Questo disco parla del trionfo sulle avversità attraverso la perseveranza e la resilienza. È un epitaffio a una parte determinante della mia vita adulta. Ma sono solo felice di averla superata e che ora sia immortalata nella roccia”.
Il nuovo album ha unito esperienze, aspettative e volontà e ha creato un connubio tra il divertimento, la spavalderia e il sarcasmo tipici della loro cifra stilistica alla varietà di temi ed emozioni provate in questi anni, dall'esaurimento all'empowerment, dalla salute mentale all'amore. Forse quest’ultimo elemento appare strano, visto lo stile della band, ma è stato uno degli ingredienti fondamentali per il recupero di Matt dal suo periodo buio. Tutti i primi anni di malattia (come se non bastasse questa, a rendere terribile ogni cosa), Bigland li ha passati in isolamento, vista la congiuntura con il periodo pandemico, e lontano dai suoi affetti, prima tra tutti la sua fidanzata, la cantante punk brasiliana Karen Dió, che è stata anche la sua principale ancora di salvezza alla disperazione, in quanto ha continuato a pensare a lei dicendosi che, se avesse superato quel momento, l’avrebbe rivista e sposata. Dal 2024 ha iniziato ad avere un maggiore controllo sulla malattia grazie a dei farmaci a base di erbe cinesi che gli sono stati molto efficaci e a quel punto ha anche colto l’occasione per coronare il suo desiderio, perché ora Karen è diventata sua moglie. E, visto che più di qualche canzone è dedicata a lei, ha pure collaborato nelle backing vocals di alcune tracce.
Musicalmente, ascoltando I’ve Felt Better la sensazione è principalmente una: bentornato 1998! Il loro grunge rock a tinte alternative, che spesso flirta con un cantato un po’ rappato, sembra emerso dai migliori anni di MTV e, in un’epoca di post-tutto, retro-mania e nostalgia-power, non è qualcosa di necessariamente così negativo. Essere innovativi non è mai stato l’obiettivo dei Dinosaur Pile-Up, ma la caratteristica principale di un buon disco non deve essere necessariamente l’originalità, quanto piuttosto la qualità e, soprattutto se, canzone dopo canzone, resta la voglia di passare alla traccia successiva e, una volta terminato l’album, c’è il desiderio di riascoltarlo di nuovo. La risposta, nel caso di I’ve Felt Better, è sicuramente positiva.
Il disco inizia alla grande con il binomio “Bout To Lose It” e la title track “I've Felt Better”, dove Matt racconta delle sue disavventure di salute, ma non perde l’occasione di infilare qualche battuta ironica su quanto sia cambiata la società mentre lui era in convalescenza: “Quindi mi sveglio e il mondo è fottuto. Ye è un fottuto nazista, MGK è un punk. Aspetta un attimo, ho una domanda. Tutto questo è troppo strano, per quanto tempo sono stato fuori?”. “Sick Of Being Down” resta invece probabilmente uno dei punti più alti del disco, capace di fondere perfettamente riff inarrestabili e testi in cui emerge la frustrazione di chiunque abbia a che fare con malattie immunitarie con il loro ciclo di malattia e guarigione. Un piccolo inno per chiunque ne abbia bisogno, per problemi piccoli o grandi nella propria vita.
“My Way”, praticamente identica a “Back Foot”, la canzone più famosa dei Dinosaur Pile-Up, è però un bell’inside-joke, perchè è come se ricreasse musicalmente il loro maggiore singolo, ma con la prospettiva che la band ha ora, che non è più quella di ricercare il successo lottando con la frustrazione di non riuscirci, quanto di seguire a testa alta e con serenità la propria strada, quella che rende ognuno di noi felici, piena delle piccole e grandi cose che sono davvero belle, significative e divertenti per noi, alla faccia di chiunque altro. La riuscita “Big Dogs”, dall’altro canto, approfitta di criticare nuovamente celebrità e ricchezza con ampie dosi di ironico humor nero, denunciando quanto la ricchezza sostenga la ricchezza (“Big dogs eat for free”).
La bellissima “Quasimodo Melonheart” è la più bella canzone melodica di ringraziamento per l'amore ricevuto e rende omaggio al suo vero amore, mentre “Sunflower” è un colorato momento di motivazione, che ricorda come si possa tornare a trionfare anche dopo momenti difficili (“Ehi, I girasoli non potrebbero crescere alti senza la pioggia”). “Punk Kiss” e “Love's The Worst” sembrano invece un po’ degli scarti dagli album precedenti e, per quanto non brutte, abbassano un po’ il livello medio e il focus del disco. Interessante “Big You and Me” e molto bella la divertente “Unfamiliar”, una sorta di riflesso giocoso della psiche interiore di Bigland, con una strumentazione completa di fischi ed effetti sonori.
La conclusiva “I Don't Love Nothing And Nothing Loves Me” termina l’album mostrando le vulnerabilità di Matt con toni più cupi, come se quanto resta tra alti e bassi di un album che - un po’ come il personaggio della bellissima cover art realizzata da Fred Stonehouse - balla su un vulcano acceso tra morte, potere, dannazione e rinascita, sia una riflessione sincera e smascherata, senza autoindulgenze verso se stesso: “solitario, psicopatico, fottuto, freak, lo amo, lo odio, questo sono solo io”.
I’ve Felt Better, dall’alto dei suoi nemmeno 40 minuti, è energico ma melodico, ironico ma riflessivo, fa venire voglia di cantare a squarciagola ma anche di dedicare le tracce più dolci alla propria metà o alle persone importanti della propria vita. Un album vivace e sincero, per cui non serve un umore specifico, ma che ha almeno una buona canzone per ogni esigenza, senza permettere mai che vada perso né il sorriso sulle labbra né la scintilla nel cuore, nonostante la tavolozza dei colori non regali solo quelli migliori. Catarsi, empowerment ed energia ruvida e senza fronzoli, in una forma snella e precisa che va dritta a segno, con gusto e semplicità.

