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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
04/06/2025
Live Report
Jesus Lizard, 02/06/2025, Circolo Magnolia, Milano
Concerto devastante, scaletta che cambia ogni sera e una band che, nonostante abbia ormai passato la sessantina, fa mangiare la polvere a molti. Connubio d’eccezione tra tre strumentisti originali e affiatati e un cantante al limite della follia: questi sono i Jesus Lizard.

Si erano già riuniti una quindicina di anni fa per qualche data sporadica, poi dal 2018 hanno ripreso piuttosto regolarmente a suonare in giro. Il vero ritorno dei Jesus Lizard è però avvenuto solo lo scorso settembre con l’uscita di Rack, a 26 anni di distanza dall’ultimo Blue. La band texana era uscita di scena più o meno in sordina a inizi Duemila, dopo un paio di lavori poco interessanti e un generale calo di interesse nei loro confronti. Rack ripristina la formazione originale, nonché un ritorno ad un livello di ispirazione che, seppure non paragonabile a quello dei primi storici dischi, riesce ad andarci pericolosamente vicino.

Finalmente il tour arriva anche in Europa e le tre date italiane (Roma, Bologna, Milano, la prima di queste andata sold out) arrivano a proposito per colmare la fame che c’era per vedere il quartetto in azione.

Il Circolo Magnolia ha allestito, dei due palchi all’aperto, quello più piccolo, e la cosa, se dice di un’affluenza di pubblico inferiore alle aspettative (fino ad un certo punto, perché alla fine il posto risulterà bello imballato) dall’altra è positiva per il fatto che la resa sonora su questo stage è da sempre migliore.

 

La fama di live act incendiario risulta pienamente giustificata già dai primi secondi: David Yow annuncia: “Questa canzone è per Steve Albini”, gli altri tre attaccano “Mouth Breather” e il cantante si tuffa in mezzo al pubblico cantando quasi tutta la canzone impegnato in un crowd surfing selvaggio. Inutile dire che i presenti reagiscono di conseguenza, si scatena il pogo e il risultato è che dopo cinque secondi il Magnolia è già una bolgia.

Mai dedica, comunque, avrebbe potuto essere più appropriata: Steve Albini ha dato di fatto il via alla carriera del gruppo (che ha iniziato la propria attività di stanza a Chicago), producendo loro i primi quattro dischi e donando un’impronta inconfondibile al loro sound. “Mouth Breather”, oltretutto, è nata da un divertente aneddoto raccontato al gruppo dallo stesso produttore: una volta aveva lasciato la sua casa a Britt Walford degli Slint il quale, rincasato una sera ubriaco fradicio e non trovando le chiavi, avrebbe pensato bene di spaccare la finestra per poter entrare.

Non si può, ascoltando la feroce esecuzione che ci viene offerta 35 anni dopo, non farsi prendere dalla nostalgia e dal rimpianto pensando a quel periodo irripetibile e al fatto che, non fosse stato per la sua prematura scomparsa, sarebbe stato probabilmente lui a lavorare a Rack. Senza nulla togliere all’ottimo lavoro di Paul Allen, è decisamente difficile non pensarci.

 

La band che ci troviamo davanti per la prima volta, e che probabilmente in pochi hanno avuto la possibilità di vedere in azione in precedenza, è composta da musicisti che hanno da tempo passato la sessantina, ma è un particolare che non sembra affatto rilevante. Aggrediscono il palco con furia inusitata e le canzoni escono fuori con un tiro ed un impatto straordinari, come se il tempo non fosse mai passato. Mac McNeilly è uno straordinario motore ritmico, pesta che è un piacere ed introduce variazioni dinamiche ed irregolari, che contribuiscono alle atmosfere malate ed inquietanti dei brani. Il bassista David Wm. Sims ricama linee potenti e particolarmente fantasiose, anche lui centro propulsore da cui scaturisce la potenza dei brani. Il chitarrista Duane Denison mette in fila un riff dietro l’altro, sempre con grande precisione e versatilità. Insieme, i tre formano una macchina strumentale inarrestabile, che fonde la violenza dell’Hardcore con le acrobazie ritmiche di band come Slint e Minutemen, un risultato che alterna selvaggi assalti frontali a mid tempo cupi e dissonanti.

Su tutto svetta poi la personalità strabordante di David Yow, un frontman tra i migliori della storia del rock, le cui linee vocali intrise di tormento interiore e del tutto prive di melodia, completano canzoni dall’architettura perfetta. David urla per un’ora e mezza senza fermarsi mai (aggiungendo anche gli sguaiati “Fuck Trump!” che inserisce ogni due per tre e che fa ripetere alla folla), sputa e si muove come un tarantolato, sempre comunque in pieno controllo delle sue parti.

Non è un segreto che la forza dei Jesus Lizard sia sempre stata in questo connubio d’eccezione tra tre strumentisti originali e affiatati e un cantante al limite della follia, capace da solo di svoltare totalmente l’atmosfera dello show. Oggi, a distanza di tanti anni, ci rendiamo conto che è ancora così: fisiologicamente meno dirompenti, certo, ma ancora in grado di dare lezioni a gente ben più giovane di loro.

 

Scaletta lunghissima, che cambia ogni sera e che concede largo spazio ai brani di Goat e Liar, probabilmente i loro due lavori più rappresentativi. Largo dunque a mazzate sui denti come “Nub”, “Monkey Trick”, l’ondivaga “Then Comes Dudley”, col suo riff immortale, l’immarcescibile “Seasick”, con la sezione ritmica sghemba che imita l’oscillare di una nave e Yow mai così realistico nell’imitare l’angoscia di un uomo che non sa nuotare. E ancora “Boilermaker”, “Gladiator”, “Puss”, veloci e dense di furia iconoclasta.

Funziona poi bene anche “Thumbscrews”, ottimo brano pur venendo da un album non troppo celebrato come Shot, e la devastante “Glamorous” dal selvaggio esordio Head.

I brani del nuovo disco sono tanti e confermano la loro bontà: “Falling Down”, la micidiale “Hide & Seek”, la caracollante “What If?”, le suggestioni ambigue di “Alexis Feels Sick”, le più “dritte” e per certi versi melodiche “Lord Godiva” e “Swan the Dog”, si integrano alla perfezione col materiale più datato e certificano una volta di più lo stato di forma di una band che, se lo volesse, potrebbe davvero scrivere una nuova fase della propria storia.

A chiudere, dopo ben due sezioni di bis (sette pezzi in tutto) arriva la vecchissima “Blockbuster” col suo urlo “Do you think you’d like that, well do ya motherfucker” a squarciare l’aria mentre i presenti si lanciano nell’ultimo pogo.

Che concerto devastante e che band, i Jesus Lizard. Residui degli anni ’90 che non hanno nessuna intenzione di essere chiamati tali.