Quanti concerti deve vedere un uomo prima che lo si chiami recensore?
Non credo ci sia un numero stabilito, perché in ogni caso per quanto si sforzi ci sarà sempre qualcosa di sbagliato in quello che le sue orecchie avranno ascoltato e i suoi occhi visto.
E comunque, grazie Bob per lo spunto.
Che c’entra questo col concerto di cui vado a raccontarvi?
C’entra, centra…
Però, portiamo pazienza e cominciamo con i dati di contesto. Non so se Giove pluvio ce l’abbia proprio con me ma ormai non c’è spettacolo musicale che vado a vedere che non sia accompagnato dalla pioggia. Si, d’accordo, fa molto british e right mood, ma parcheggiare in un acquitrino non è che mi disponga proprio benissimo. In più aggiungiamo che la piadina del bar è calda fuori e fredda dentro e che so già che le poltrone dell’auditorium sono fra le più scomode mai provate per poter dire: ok, sono di malumore. Un malumore appena stemperato quando leggo dall’accredito il posto che mi è toccato. Centralissimo e alla distanza giusta, nulla di meglio per un ascolto stereofonico: grazie organizzazione.
Appena entro il mio inconscio mi fa rivolgere lo sguardo verso il palco, per vedere un insieme che dire minimal è dir poco, direi francescano. Ormai da molti anni siamo abituati al gigantismo palcastre fatto di strumentazione pletorica, millemila pedaliere e amplificazioni all’ultimo grido. Qui vedo (si può fare pubblicità?) un normalissimo Fender twin reverb ad amplificare la chitarra e un SWR per basso non diverso da quelli che è capitato di usare anche a me. Roba tutto sommato proletaria e anche di una certa età, come normalissimi sono la Stratocaster e il Jazz Bass appoggiati su esilissimi reggichitarre. Mi sembra poi che il numero di pedalini non superi le dita di una mano per i due strumentisti a corde e che il tastierista si accontenti di un Hammond e una tastiera che da lontano non sono riuscito ad identificare. Trovo la cosa piuttosto intrigante.
(Il Palco…)

Sbrigata la pratica per maniaci della strumentazione per fare musica (che avrà comunque il suo peso, come scoprirò presto) veniamo all’aspetto socio-antropologico. Qui ho molto poco da dire se non che io con le mie oltre sessanta primavere sono uno dei più giovani in sala. Fatto anche piuttosto logico se si considera che i Jethro Tull (va bene pignoli, c’è solo Ian Anderson, ma nel suo caso mi sento di dire che è sufficiente la sua presenza per far svanire l’effetto tribute band. Ian è i Jethro e i Jethro sono Ian, e basta altrimenti faccio sgombrare l’aula!) sono in circolazione da quasi sessanta anni e hanno avuto il loro momento di massimo fulgore intorno a una cinquantina di anni fa. Sarà logico, ma fa comunque una certa impressione vedere un pubblico con una distesa di capigliature bianche così compatta e compattamente felice di assistere ad uno spettacolo che (ne sono sicuro) non è la prima volta che si vede.
Va bene, con qualche minuto di ritardo si parte. In scena entrano il solo Ian e il giovane chitarrista Jack Clark a intonare "Some Day The Sun Won't Shine For You", un blues bello tosto con l’eccellente armonica di Anderson a ricordarci da dove veniamo e forse anche dove andiamo. Il menestrello sembra in forma, di sicuro si diverte, e quando un musicista ride di solito le cose non possono che andare bene. Subito dopo arrivano gli altri compagni di viaggio e parte "Beggar’s Farm", molto rivisitata ma assolutamente piacevole.
Adesso mi appare plasticamente chiaro quello che prima avevo visto rappresentato sul palco: la semplicità. Ogni strumento suona come deve suonare: la Strato fa la Strato, il Jazz bass e l’organo anche loro emettono quelle rassicuranti sonorità che ti aspetti, e la batteria non ha quegli infingimenti da processori digitali che fanno suonare tutto luccicante e in ultima analisi fasullo. La musica è solo musica.
Sensazioni del vostro recensore di fiducia:
Sono tornato a casa
Fuori fa freddo e piove da due giorni filati
Il camino non c’è ma è come se lo avessi
Il gatto fa le fusa sul bracciolo della poltrona
Io sono il me stesso di mezzo secolo fa e lo sarò per sempre.
Tecnicamente discorrendo:
Parlare dei Jethro Tull è una questione parecchio scivolosa. Si sono spesi fiumi di parole per spiegare al volgo quanto in realtà non sia corretto definirli prog o non lo siano a sufficienza. Quanto di converso si debbano qualificare per tutto il resto della loro produzione che invece è Folk, o Pop Folk o quello che vi pare. Per aggiungere qualcosa di originale a quello che si è detto di loro posso dare conto del mio personale giudizio, e cioè quanto questa band sia importante nella musica dei '60-'70, tanto da aver lasciato un nucleo largo e affezionato di fan, ma anche quanto tutto sommato sia rimasta poco influente.
Prima di essere messo in croce dai supporter estremi, inchiodato con un ginocchio piegato, chiarisco che con “poco influente” intendo il fatto che non mi sembra abbia formato e lasciato eredi, essendo poi rimasto un unicum il suo far parte del mondo del progressive solo per un paio di album (di cui uno, Thick as a Brick, pure visto da qualcuno come un clamoroso fake di sberleffo alla magniloquenza del prog) e avendo invece una storia diversa, di musica diciamo folk, ma che preferirei non etichettare avendo una sua forma e peculiarità totalmente originali.
Dal terzo brano in poi, visto che non posseggo la set list, mi perdo il titolo di qualche canzone, ma non è un male. La circostanza mi aiuta ad avere una ricostruzione asettica del quadro generale della musica che sto ascoltando senza la distrazione derivante dall’ansia di dover fare la cronistoria, mi immergo nel flusso del suono, senza pensare ad altro. Il concerto scorre compatto, ordinato e segue un filo logico chiarissimo. Sullo schermo passano immagini piuttosto originali (lontanissime dalla nouvelle vague che impone super effetti speciali) con ricostruzioni in cartoon di vecchi concerti della band in sincrono con quanto si sta suonando dal vivo. L’effetto è gradevole.
Certo, non posso negare che nonostante la rilettura dei brani, rimanga tutto molto agèe, ma stranamente riesce a non sapere di muffa. Ogni nota che fluisce si porta dietro la successiva in modo prevedibile. Nulla è fuori posto. La band si è data molto da fare nel rinfrescare brani arcinoti, e si sente, ma devo dire che il risultato non è niente male. Le citazioni delle canzoni più famose ci sono eccome, eppure non infastidiscono, mentre il pubblico si scalda come si possono scaldare un uomo e una donna di una certa età.
Gli applausi sono intensi ma mai esagerati; nella fila di fronte alla mia una coppia si scambia effusioni, che aumentano quando Ian si prodiga a darci dentro col flauto. In contrapposizione alla estrema compostezza dei membri della band vedo il menestrello (ricordo per i distratti, quasi ottantenne) agitarsi in lungo e in largo sul palco e in un caso prendersi amabilmente in giro simulando uno strappo inguinale al culmine di una danza furiosa.
La prima parte del concerto, che conta dieci brani, fra cui il classicissimo "Thick as a Brick" e l’omonimo brano dall’ultimo album Curious ruminant (di cui consiglio l’ascolto), si conclude con la iconica "Bouree" in cui Ian si prende il suo spazio, come è logico, ma lascia anche lo spazio corretto per le performance solistiche degli altri musicisti.
L’intervallo è il momento giusto per spendere due parole sul gruppo. Ho già detto della strumentazione che prima ho definito “proletaria”. Direi che lo stesso aggettivo si può estendere ai musicisti. Gente solida, onesta e che non ho sentito strafare nemmeno di una nota. Oltre al già citato Jack Clark alla chitarra, i signori David Goodler al basso, John O’ Hara alle tastiere e Scott Hammond alla batteria hanno il pregio di interpretare la musica di Ian Anderson come a mio parere deve essere: tessendone in maniera discreta la trama e lasciando tutta, o quasi, la scena al front man.
Dopo un intervallo forse troppo lungo, la seconda parte prende il via con "My God" subito dopo seguita da "The Zealot Gene", "The Donkey and the Drum", "Over Jerusalem" (anche questa dall’ultimo album Curious Ruminant) e "Budapest", un'incursione su un arco temporale che va dal 1987 all’altro ieri, dato che la più recente creazione è del marzo di quest’anno.
La sensazione che provo è quella di un messaggio musicale che apparentemente si mantiene sempre uguale a sé stesso, eppure riesce ugualmente ad accattivare senza diventare stucchevole. Come ciò sia possibile bisognerebbe chiederlo allo stesso Ian. Forse è figlio dell’amore che ha sempre messo nelle sue composizioni, forse nell’avere sempre mantenuto la fedeltà ad uno schema, non saprei dire. Quello che noto è che la gente lo percepisce, e quello che il pubblico e la band si scambiano vicendevolmente è affetto puro.
Il secondo blocco si conclude con una "Aqualung" alquanto pesantemente rivisitata, che è probabilmente quello che tutti avremmo voluto sin dal primo minuto ma che non abbiamo osato chiedere. Qui la band rifinisce una reinterpretazione che, ancora una volta, non posso definire rivoluzionaria ma piacevolmente rinnovata di sicuro si.
Quando dopo il bis (in verità un extra time) - composto dalla non mancabile "Locomotive Breath" e dalla risalente ai primi anni ottanta "Cheerio" - il pubblico sfolla, mi capita di ascoltare alcuni commenti. I più mostrano di essere assidui frequentatori dei concerti di Ian Anderson citando in maniera competente “quel concerto di dieci anni fa quando Ian…”, ma il migliore è quel signore che mi passa accanto sussurrando al vicino “certo però, l’ho trovato meglio rispetto a due anni fa”, come si direbbe dopo aver fatto una visita ad un anziano parente.
Forza Ian, finchè il tuo pubblico ti vuole bene così c’è ancora tempo.

