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REVIEWSLE RECENSIONI
19/12/2017
Bette Smith
Jetlagger
Esuberante e selvaggia, Bette Smith sfodera un disco d’esordio senza compromessi, che colpisce come un uppercut in pieno mento: una voce che strattona e un suono ruvido e impetuoso

Fin dal primo ascolto di questo album di debutto è chiaro che Bette Smith, musicista originaria di New York (è cresciuta nel quartiere Bedford- Stuyvesant, cuore della cultura afroamericana e location del film Fa La Cosa Giusta del regista Spike Lee), sia già in possesso dello spessore artistico di una veterana. Lo si capisce dalla coerenza di un suono strutturato e rodatissimo, ancorché viscerale, dalla scelta di spostarsi a registrare in Mississippi con l’etichetta indipendente Big Legal Mess e di scegliere come produttore Jimbo Mathus, uno che conosce a menadito il roots sudista, che ha Memphis nel sangue e che ha suggellato una carriera importante (è a capo degli Squirrel Nut Zippers e ha alle spalle una decina abbondante di dischi solisti) suonando per un paio d’anni gomito a gomito con il grande Buddy Guy.

Jetlagger, quindi, fonde alla perfezione due diverse anime: quella dell’artista cresciuta sui marciapiedi della metropoli ascoltando i dischi di Otis Redding, dichiarato mentore della Smith, e quella del sud degli States, proprio dei luoghi, cioè, dove quella musica ha avuto origine e ha vissuto anni gloriosi. Mathus, poi, ha preteso di registrare tutto in presa diretta, in modo che questa combinazione incandescente, questo meltin’ pop tra asfalto di periferia, garage power e amore viscerale per il soul classico di derivazione Stax, possedesse la ferocia take-no-prisoners che incendiò le performance di James Brown all’Apollo Teather di New York, nel lontano 1963. Paragone ingombrante, forse, ma decisamente calzante. E poi, c’è una voce straordinaria: a metà fra quello di Betty Davis e quello di Macy Gray, il timbro sgarbato e graffiante della Smith dà fuoco alle polveri di dieci canzoni in cui rivive, in una chiave decisamente ruvida e rockeggiante, il mood che animava i dischi di Sly & The Family Stone, Millie Jackson e Ike & Tina Turner (sulla scaletta aleggia lo spirito guida di Nutbush City Limits).

I Will Feed You apre il disco dimostrando la pasta di cui è fatta la ragazza: numero da fuoriclasse per una spettacolare ballata dagli echi seventies, che si sviluppa sulle alternanze fra rock e soul, chitarra acustica ed elettrica, pieni e vuoti. Spiazzante e memorabile. La title track, invece, spinge forte sul versante r’n’b, sei corde e fiati a spartirsi la scena, e la voce maleducata e gutturale della Smith a evocare Tina Turner. Devastante, poi, la cover di I Found Love dei Lone Justice che, depurata degli accenti eighties dell’originale, corre sparata a una velocità quasi punk, così come Manchild, chitarre in resta e tonnellate di energia che neanche Southside Johnny & The Asbury Jukes. La Smith, però, sa eccitare gli animi anche quando rallenta un poco il passo, innervando di tensione funky Durty Hustil, brano che sembra preso dalla colonna sonora di un film Blaxploitation o quando trasfigura in un ruggito leonino City In The Sky, classico soul portato al successo dalle Staple Sisters nel 1974.

Esuberante e selvaggia, Bette Smith sfodera un disco d’esordio senza compromessi, che colpisce come un uppercut in pieno mento: una voce che strattona e un suono ruvido e impetuoso, che Mathus cavalca e doma con una produzione coraggiosa e senza orpelli. Uno dei migliori esordi dell’anno.