Chi l’avrebbe mai detto che un giorno il mondo sarebbe stato di quelli che si mangiano le parole e che un’intera generazione di cantautori e interpreti, penalizzata da un insanabile connubio tra un disturbo dell’articolazione dell'eloquio, l’anelito di rimare con parole tronche per emulare i propri beniamini d’oltreoceano e il desiderio di far percepire il proprio vissuto da underdog, un must dei nostri tempi, si sarebbe alfine imposta come il genere umano predominante nel panorama musicale italiano. Che avremmo dato ragione a gente che si esprime biascicando.
Il tutto mentre quelli della mia generazione, cresciuti a cantanti underground dalla dizione fin troppo impostata e azzimata - pensate a un Miro Sassolini, un Andrea Chimenti o allo stesso Pelù con tutto il suo entusiasmo - si sarebbero trovati nello stesso momento storico anziani ed esposti a questa barriera di incomunicabilità in piena ipoacusia, conseguenza dell’età avanzata e di ascolti giovanili a volumi evidentemente inopportuni. In poche parole, siamo sordi noi o hanno bisogno di un buon logopedista loro?
Per valutare giovani cantanti come Joan Thiele occorre quindi spogliarsi del pregiudizio che, per una serie di motivi che non conosciamo ma dei quali sicuramente noi vecchi sputasentenze rincoglioniti (che ne siamo stati genitori e insegnanti) ne costituiamo in gran parte la causa, nel duemila e rotti i giovani tentano l’emancipazione culturale (e purtroppo linguistica) con fonemi di questo stampo e che quella che sembrerebbe un’omologazione a uno stile vocale tutto italiano, indispensabile per certificare l’appartenenza all’ormai super-genere unico nazionale - quella specie di pop trap rap neosoul imbellettato da urban indie che detiene il monopolio solo da noi, altro non è che una naturale evoluzione del linguaggio. Un destino che ha dell’incredibile: dal latino al volgare, dal volgare all’italiano, dall’italiano al bsgsgsgsg. Abbiamo vissuto la stagione degli urlatori? Bene, ora godiamoci quella dei farfuglioni.
Ma queste sono stupidaggini. Credo piuttosto che la talentuosissima Joan Thiele certo non si offenderà se ammetto di averla scoperta solo grazie al suo contributo all’album di Colapesce Di Martino. La difficoltà di comprenderne il testo senza fruire di un labiale in presenza mi aveva oltremodo intrigato. Poi, la sua apparizione sul palco dell’Alcatraz di Milano come consolidamento del suo featuring proprio per il brano in questione (“Forse domani”, una delle più riuscite tracce di Lux Eterna Beach) accompagnata dalla band degli autori di “Musica Leggerissima”, ha avvalorato il colpo di fulmine. Da allora ho percorso a ritroso la sua carriera grazie all’ordine anticronologico della sua produzione in palinsesto nella più diffusa piattaforma di musica liquida e, fedele al mio modo ossessivo compulsivo di approfondire gli artisti che mi piacciono, mi sono messo in paziente attesa di una prova più rappresentativa della sua maturità. Un album, ma di successo, fatto e finito.
Fino a quando, da uno dei suoi profili social che seguo con fervente devozione, ho appreso della partecipazione al Festival di Sanremo assistendo alla story del momento che mostrava la sua reazione (un vero e proprio POV, com'è tanto di moda oggi) alla notizia del superamento della selezione. Sono stato così sveglio per una settimana fino alle due di notte per scoprire le possibilità che avrebbe avuto “Eco”, senza dubbio la canzone più interessante di tutto il festival, anche molto di più del pluri-favorito Lucio Corsi, di piazzarsi ai primi posti, per poi scontrarmi con la feroce realtà extra-bolla e constatare, per l’ennesima volta, come se non l’avessi mai saputo, la pochezza di un concorso canoro lasciato alla mercè di una giuria popolare di deprivati che, fondamentalmente, di musica non capisce un cazzo, perfettamente in linea con il resto, a partire dal senso estetico per arrivare agli orientamenti politici, antipolitici e astensionisti. Venticinquesima, roba da matti. Ma ormai i giochi erano fatti: Joanita, finalmente il primo disco fuori dalla nicchia, sarebbe stato pubblicato di lì a poco.
Ed eccolo qui. Nella sua intervista a Il Manifesto di qualche giorno fa la cantautrice (italiana ma, grazie al miscuglio di residenze e incroci genitoriali, cittadina del mondo) ha ammesso l’impegno e la caparbietà necessaria a portare a termine un disco così sofisticato in quasi tre anni. Un impegnativo processo di composizione musicale, arrangiamento, scrittura dei testi e assemblaggio nella forma canzone in grado di mettere fuori gioco anche un carattere perfezionista e una personalità dal gusto sopraffino come Joan Thiele. Fino a quando l’istinto, i consiglieri giusti e una produzione molto poco italiana hanno sbloccato il livello e spianato il percorso più adatto ad arrivare sino in fondo e chiudere il progetto.
Dentro a Joanita la regia di Callum Connor dei Free Nationals, l’apporto di Mace, il beneplacito della figlia di Piero Umiliani per certi smaccati tributi alle colonne sonore del padre e il featuring di Frah Quintale che colloca meglio il prodotto nel calderone nazionale (autore dell’ennesima non-rima frequente in questo genere di canzoni - 'Sta vita è troppo corta, ti verso un Franciacorta - che è un vezzo che mi manda in bestia) fanno da cornice alla vera protagonista.
Dodici tracce (più uno scherzo finale) che funzionano sotto tutti i punti di vista. Melodie intriganti ma sufficientemente contenute per non sconfinare nel pop dozzinale, con il giusto alternarsi tra cantato e quel flow che sembra sempre che chi recita stia per andare in un inebriante fuori tempo ma che invece, dimostrando di gestire al meglio la situazione, essendo convintamente cool, ha tutto sotto controllo. Pattern e suoni di batteria che cullano l’ascoltatore tra il trip hop e il breakbeat. Trovate e arrangiamenti ispirati alle orchestrazioni della canzone italiana anni '60 (la chitarra suonata con il riverbero e altri effetti garage-surf su tutti) e, in genere, groove a volontà. Un raro sfoggio di stile che si accende su un immaginario cinematografico centrato sulla voce narrante di Joan Thiele, artista unica, songwriter sorprendente e figura ricca di fascino.
Joanita sarebbe un disco da massimo dei voti se non fosse per la dizione irritante, una posa che, anziché conferire valore aggiunto all’opera, ne omologa le tracce a un provincialissimo cliché - che ahimè va per la maggiore - oramai trito e ritrito, sicuramente poco inclusivo, ampiamente pretenzioso e per questo più che superfluo. Ma non ve l'ha mai insegnato nessuno, da piccoli, che non si parla con la bocca piena?