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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
17/01/2022
Joe Satriani
Joe Satriani
Un disco particolare, in cui Joe Satriani abbandona il suo tipico marchio di fabbrica, caratterizzato da sovraincisioni e superproduzione, a favore di un approccio maggiormente live, pienamente radicato nella magica atmosfera della fine degli anni ‘60/inizio ’70. Il risultato è un’opera brillante, con alcuni dei più profondi e commoventi “guitar playing” della carriera di “Satch”.

Joe Satriani, sesto omonimo album del chitarrista americano con origini italiane, è un lavoro che ha meritato un semplice trafiletto, solitamente apprezzativo, ma senza speciali elogi, nella sua ricca discografia. Adesso, dopo più di cinque lustri, rianalizzandolo, ci si rende conto di quanto brilli di luce propria e si dimostri ancora attuale, grazie alla scelta azzardata, ma vincente, di affiancare alla matrice hard rock, in voga in quel periodo, sprazzi di blues, garantiti da un produttore e un gruppo di musicisti abituati a bazzicare anche in tal genere.

Una carriera singolare, quella del Funambolo di Westbury, ora pimpante sessantacinquenne pronto ad andare in tour, pandemia permettendo, nella primavera del 2022. Folgorato dal genio di Jimi Hendrix e sconvolto per la sua morte, rinuncia presto a giocare a football per imparare a suonare bene lo strumento di cui in futuro sarà un’assoluta icona. Due fenomeni jazz, Billy Bauer e Lerry Tristano sono i suoi maestri e presto, dotato di un’incredibile capacità e velocità di apprendimento, diviene pure lui un insegnante molto quotato: Steve Vai, Kirk Hammett, David Bryson e Kevin Cadogan sono fra gli alunni più famosi. Joe, comunque, non ha mai abbandonato l’idea di intraprendere un’avventura musicale personale e vi riesce spostandosi in California, sebbene inizialmente rimanga “guitar professor”.

Aiutato economicamente dalla Greg Kihn Band, alla cui serie di spettacoli si era aggiunto, riesce a pubblicare il primo EP nel 1984, e negli anni successivi avviene la consacrazione, con un filotto di dischi fenomenali - soprattutto Surfing with the Alien, il secondo, contribuisce a innalzare enormemente il suo status di virtuoso -,  proiettando l’artista a metà novanta nell’Olimpo dei giganti delle sei corde. Satriani, ovviamente, ha ereditato tanto dal trio Beck/Page/Clapton, ma curiosità e gusti raffinati lo hanno spostato anche verso altri idoli britannici, forse un po’ meno conosciuti, però altrettanto imprescindibili per un giovane appassionato, come il “John Coltrane della chitarra” Allan Holdsworth, principalmente nei trascorsi con The New Tony Williams Lifetime, e il potente Robin Trower, storico elemento dei Procol Harum e nel prosieguo brillante frontman della band che porta il suo nome.

Tutti si accorgono di lui, da Mick Jagger ai Deep Purple, e con entrambi andrà in tour. Intanto crea una personale linea di chitarre, ideate dalla casa Ibanez, e si butta nel progetto che stiamo esaminando, un album strumentale davvero variegato, mai noioso, prodotto dal timoniere veterano Glyn Johns, una vita vissuta tra Led Zeppelin, Who e Rolling Stones. Notevoli e, per certi versi, sorprendenti, i turnisti selezionati per accompagnare “Satch”, dal tonitruante Manu Katché, famoso per aver dato un’impronta jazz al rock multiforme di Peter Gabriel e Sting, all’eclettico Nathan East, bassista universale, vero asso nella manica in grado di trovarsi a proprio agio perfettamente in ogni categoria delle sette note, si vedano i suoi Fourplay e, più avanti, i Toto e la partecipazione al pluripremiato Random Access Memories dei Daft Punk.

Andy Fairweather Low, un passato negli Amen Corner, quelli di "(If Paradise Is) Half As Nice", versione inglese de "Il Paradiso della Vita", scritta dall’accoppiata Battisti-Mogol per La Ragazza 77, pseudonimo di Ambra Borelli, e in seguito ripresa e resa popolare da Patty Pravo, rimane la scelta più inaspettata, ma l’innata pacatezza e formidabile precisione come chitarrista ritmico blues sono magicamente complementari all’esuberanza di Satriani.

Ascoltare i risultati di questa strana, ma vincente fusione di personaggi è già gratificante dall’iniziale "Cool#9", sorta di manifesto di intenti impreziosito dal piano di Eric Valentine. Si tratta di una delle tracce più rappresentative dell’LP, in cui tutte le influenze di Joe confluiscono nei tre ispirati assoli, con echi di Coltrane, Hendrix e qualcosa di assolutamente innovativo e ineguagliabile, non catalogabile, che pervade il finale.

La grinta rock con sfumature psichedeliche di "If" è impareggiabile, per merito di una batteria poderosa e conduce a un altro pezzo da novanta presente nella raccolta, la languida "Down, Down, Down", una porta aperta su un’estesa vallata denominata malinconia, invece "Luminous Flesh Giants" è un esercizio di stile che scorre via senza particolari sussulti, in attesa di un motivo incandescente già dal titolo. Infatti "S.M.F", acronimo per Sick Mother Fucker, è un bluesaccio di quelli tosti con l’Ibanez spremuta come un limone e pure un’armonica da brividi sulla schiena. La saggia regia di Johns elimina le distanze tra l’ascoltatore e il luogo da cui scaturisce la performance. E’ come avere Joe, Andy, Nathan e Manu a casa propria. Libidine.

 

“E’ la musica a cambiare il tuo umore, non il contrario.”

 

Quanta verità in questa frase celebre del nostro! L’anima si eleva fino a volare verso il cielo gaudente e intanto si fischietta "Look My Way", che sembra spuntare da un vecchio disco di John Mayall, unico motivo in cui “Satch” si cimenta al canto, facendosi in questo caso accompagnare dalla sezione ritmica più cool che ci sia, quella dei fratelli Matt e Gregg Bissonette, già compari di viaggio del protagonista nei precedenti "The Extremist" e "Time Machine". I continui cambi di ritmo e generi sono una ragione di esistenza in questa creazione e la ballata "Home" è quanto di più romantico si potrebbe chiedere, senza essere sdolcinati, con una melodia rappacificante in cui si intuisce e respira qualcosa di molto intimo, profondo e introspettivo, in grado di smuovere sentimentalmente.

Una delle pregevoli caratteristiche di Joe, artista veramente poliedrico, è quella di non sprecare una nota e non replicarsi mai per nessuna ragione: "Moroccan Sunset" è un luminoso quadro dalle tinte esotiche che deraglia nel funky con un assolo magistrale e una forza percussiva celestiale, mentre "Killer Bee Bop" è un’incursione piacevolmente spiazzante nella jazz fusion; qui il basso di Nathan East diventa vorticoso e irraggiungibile.

Gli amanti della musica del diavolo rimarranno a bocca aperta nei sette minuti abbondanti di "Slow Down Blues", brano diviso in una parte lenta, “solitaria”, dove dobro, slide e french harp intrecciano una trama sonora di rara bellezza, per poi vedere sopraggiungere il resto della truppa nella seconda frazione, trasformandosi in una soffice cavalcata uptempo. “Give it to me baby…You gotta slow down” sono le uniche parole, a malapena sussurrate e percepibili bene solo con l’uso delle cuffie, che fuoriescono da questa indovinata composizione.
La conclusione è intensa grazie a "(You’re) My World", con un wah wah da capogiro, pronto a soddisfare il più insaziabile adoratore delle sei corde, e il morbido bozzetto "Sittin’ ‘Round", valorizzato da una lap steel da favola.

Giungendo al termine dell’opera, ci si rende conto che l’intenzione dell’autore sia stata quella di unire in un progetto speciale una mescolanza di influenze, con rock e blues a fare da collante, ma, sia ben chiaro, ogni canzone è un mondo a sé, anzi spesso un universo parallelo che di mondi ne contiene più d’uno, e che sfida l’ascoltatore a scoprirli tutti, come in un rompicapo. L’azzeccata scelta dell’ordine delle tracce in scaletta costituisce, inoltre, un’altra peculiarità dell’album, studiato per essere udito incessantemente escludendo la minima monotonia, permettendo così di scovare una nuova luce in ciascuna ripetizione.

Joe Satriani non si è mai fermato, e, in seguito a questa pubblicazione ha fondato il G3, un’idea magnifica protrattasi fino a oggi che prevede il tour di un trio di virtuosi della chitarra a rotazione -ovviamente includendo sempre lui come membro permanente-, e realizzato svariati lavori, in studio e live, oltre alla prestigiosa collaborazione nel supergruppo Chickenfoot. Si è dimostrato instancabile e ha mantenuto la curiosità ed entusiasmo degli esordi, attitudini che gli hanno consentito di rinnovarsi e, senza dimenticare le sue origini di professore, collegarsi alla successiva generazione di eroi dello strumento da lui tanto amato, come Kenny Wayne Shepherd e Jonny Lang.

 

“Quando ero nella stanza di Joe, ad imparare, non sentivo mai esaurirsi la sua guida. C’erano sempre delizie e sorprese nell’insegnamento, e, una lezione dopo l’altra, rivelava sempre un momento di profonda musicalità che sembrava protrarsi all’infinito. Unico!” (Steve Vai)