C’è qualcosa di profondamente rassicurante nel vedere Johnny Marr salire su un palco. Non solo perché parliamo di uno dei chitarristi più influenti degli ultimi quarant’anni, ma perché oggi, a sessantadue anni, Marr trasmette un senso raro di equilibrio, serenità e consapevolezza. È come se, dopo una vita passata a inseguire l’idea di una band perfetta – e dopo averla effettivamente trovata e perduta con gli Smiths – avesse finalmente trovato la sua dimensione ideale: quella del solista, ma senza ansie di affermazione, libero di suonare ciò che ama, e di farlo con una band affiatata e un pubblico fedele.
La carriera di Johnny Marr, d’altronde, è un viaggio complesso e affascinante. Dopo aver cambiato per sempre la chitarra britannica negli anni Ottanta, insieme a Morrissey, Andy Rourke e Mike Joyce, Marr ha passato i successivi quindici anni a fare il sideman di lusso: The The, Bryan Ferry, Talking Heads, Electronic (insieme a Bernard Sumner dei New Order), Modest Mouse, The Cribs. Ovunque andasse, ha lasciato la sua impronta – quel tocco brillante, sospeso, melodico, inconfondibile. Ma la carriera solista vera e propria è arrivata solo nel 2013, con The Messenger, quando Marr aveva già superato i cinquant’anni. Da lì, altri tre dischi solidi – Playland, Call the Comet, Fever Dreams Pts 1-4 – che, senza mai inseguire mode o nostalgie, hanno consolidato il suo stile: chitarre sognanti, tastiere new wave, un’eleganza pop che guarda tanto al post punk quanto alla seconda fase di carriera dei New Order.
Negli ultimi anni, Marr sembra voler mettere ordine nella propria storia. Prima un greatest hits con inediti (Spirit Power: The Best of Johnny Marr), poi un live registrato all'Hammersmith Apollo di Londra (Look Out Live!), oggi un tour che promuove proprio quel live. Ma con una novità: in scaletta ci sono due nuovi brani, anteprime del prossimo album, che riportano il suono di Marr vicino a quello degli Smiths, come a chiudere un cerchio iniziato quarant’anni fa nelle strade di Manchester.
Ad aprire la serata al Fabrique sono i The Clockworks, quartetto irlandese di Galway ora di stanza a Londra. James McGregor (voce e chitarra), Sean Connelly (chitarra), Damian Greaney (batteria) e Tom Freeman (basso) hanno dalla loro parte una solida benedizione: quella di Alan McGee, il leggendario scopritore degli Oasis e fondatore della Creation Records, che li ha messi sotto contratto quasi “da un giorno all’altro” (parole loro) nel 2019. Il loro album d’esordio, Exit Strategy, pubblicato nel 2023, ha già mostrato un gruppo con le idee chiare: testi taglienti, ritmo serrato, chitarre appuntite e quella malinconia urbana che affonda le radici nel miglior indie britannico.
Sul palco del Fabrique, i Clockworks suonano per una mezz’ora abbondante, e convincono. Ci sono echi dei primi Fontaines D.C., il nervosismo controllato degli Strokes, ma anche – inevitabilmente – l’ombra lunga degli Smiths. È un sound compatto, potente ma melodico, e il pubblico milanese li accoglie con curiosità e partecipazione. Una band ideale per scaldare la platea in vista del padrone di casa, o meglio, del mancuniano che tutti sono venuti a vedere.
Entrando al Fabrique, si nota subito che la serata è “speciale”. Il locale è in modalità club: capienza ridotta, il mixer spostato molto avanti, un telo nero a delimitare lo spazio. Tutto sembra più raccolto, più intimo. Non è la solita venue da grande evento, ma un luogo dove si può quasi respirare la musica. Una scelta che si rivela azzeccata: Marr ha sempre avuto un’anima da chitarrista di club, e questa atmosfera calda e raccolta valorizza la sua precisione e il suo tocco.
Alle 21 spaccate (puntualità britannica) Johnny Marr sale sul palco accompagnato dai fidati James Doviak (chitarre e tastiere), Iwan Gronow (basso) e Jack Mitchell (batteria). Nessun effetto scenico eccessivo, solo luci nette e un suono perfettamente bilanciato. Marr imbraccia la Jaguar e attacca a suonare senza fronzoli.
Chi segue Marr dal vivo da qualche anno sa che la proporzione tra il suo materiale solista e i brani degli Smiths è andata via via cambiando. Oggi siamo a un 50:50, e non è affatto un male – anzi, è un equilibrio perfetto. Perché Marr, ormai, è diventato anche un cantante solido, sicuro, in grado di affrontare i classici scritti con Morrissey senza trasformarli in caricature o imitazioni. Il suo timbro, meno teatrale ma più diretto, restituisce ai pezzi degli Smiths una freschezza sorprendente.
La scaletta è costruita con intelligenza. Dopo un’apertura travolgente con “Generate! Generate!”, quando parte “Panic” degli Smits la temperatura emotiva del pubblico sale. Nel corso della serata arriveranno altri brani solisti, da “New Town Velocity” a “Spirit Power and Soul”, fino a “Easy Money”, tutti accolti con entusiasmo. Marr alterna momenti di pura energia a passaggi più introspettivi, e il suo tocco chitarristico – pulito, cristallino, inconfondibile – domina ogni arrangiamento.
A circa un terzo del concerto arriva “This Charming Man”, al termine della quale Marr, con un sorriso beffardo, scherza lanciando una provocazione: “Come on, abbiamo anche canzoni migliori!”. Comprensibile l’entusiasmo del pubblico: la canzone, con quel riff immortale, suona perfetta, senza tempo. Nella seconda parte della serata si entra in pieno nella leggenda: “Bigmouth Strikes Again”, una “How Soon Is Now?” resa monumentale dagli assoli centrali, e poi una “Please, Please, Please Let Me Get What I Want” in versione acustica, da brividi.
C’è spazio anche per un ripescaggio prezioso: “Getting Away With It” degli Electronic, il progetto condiviso con Bernard Sumner, che diventa una piccola celebrazione della scena mancuniana (nel presentarla Marr accenna al mitico club di Manchester The Haçienda) e dell’amicizia tra due musicisti che, insieme, hanno reinventato il pop britannico.
Arrivato il momento dei bis, si riparte con “The Passenger” di Iggy Pop (ben suonata ma forse superflua), seguita da “Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before” e dall’inedito “Ophelia”, che lascia intuire un futuro album di grande ispirazione. Il gran finale, inevitabile, è “There Is a Light That Never Goes Out”: il pubblico canta ogni parola e per un attimo il Fabrique diventa una piccola Manchester.
Quello che colpisce, più di tutto, è l’energia di Marr. Non è uno di quei reduci che suonano per contratto: è un artista che sembra divertirsi sinceramente. Sorride spesso, scherza con il pubblico, ringrazia, si muove sul palco con leggerezza. C’è la gioia pura di chi sa di essere parte della storia, ma non vive di quella. Il suo accento mancuniano, le battute tra un brano e l’altro, la complicità con la band – tutto trasmette l’idea di un musicista finalmente in pace con il proprio passato. La differenza tra lui e Morrissey, a conti fatti, è tutta qui: Marr può fare a meno delle parole di Morrissey, perché la sua musica parla da sé; Morrissey, invece, non può fare a meno delle melodie di Marr. E il concerto di Milano ne è la prova definitiva.
Quando le luci si accendono e il pubblico esce nel freddo di novembre, resta quella sensazione che solo i grandi sanno lasciare: aver assistito non a un esercizio di nostalgia, ma a un artista vivo, ispirato, ancora in cerca di nuove canzoni. E forse è proprio questo il segreto di Johnny Marr: non smettere mai di cercare.

