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REVIEWSLE RECENSIONI
29/08/2018
Ty Segall & White Fence
Joy
A sei anni di distanza da “Hair”, Ty Segall e Timothy Presley (White Fence) tornano a collaborare. Il risultato è “Joy”, un caleidoscopio di Rock psichedelico che pare uscito da una macchina del tempo direttamente dal biennio 1967/68.

Squadra che vince non si cambia, recita il motto, per cui Ty Segall e Timothy Presley (qui con il monicker di White Fence), sei anni dopo Hair, hanno deciso che era giunto il momento di incrociare nuovamente i rispettivi cammini artistici e vedere l’effetto che fa.

 E nonostante il comunicato stampa che accompagna l’album voglia far credere che i due siano, sulla carta, la più classica delle odd couple, nella realtà Segall e Presley sono due spiriti che più affini non si può e questo Joy ne è la prova. Molto più curato e a fuoco rispetto a Hair – ascoltando il quale, nonostante le ambizioni fossero maggiori, era percepibile come Ty e Timothy stessero ancora imparando a conoscersi artisticamente parlando –, Joy è un caleidoscopio di Rock psichedelico che pare uscito da una macchina del tempo, catapultato qui e ora direttamente dal biennio 1967/68.

Dietro una facciata falsamente trasandata, fatta di feedback, chitarre acustiche svogliate e drum machine impazzite, Joy nasconde una quindicina di pezzi uno più corto dell’altro che sono dei veri e propri nuggets di Rock psichedelico – e qui il riferimento alla famosissima compilation del 1972 curata da Lenny Kaye per Elektra non è per nulla casuale –, nei quali l’attitudine spavalda e più legata al Punk e al Garage di Segall si sposa a meraviglia con la sensibilità più Pop di Presley. E se Hair trovava i suoi riferimenti principali nei Pink Floyd di Syd Barrett e nel John Lennon più psichedelico, in Joy lo spettro si amplia, andando a includere pure gli Who di A Quick One e Sell Out e i T. Rex pre-Glam.

Più di qualcuno ha scritto che Hair è stato il punto più alto delle discografie di Segall e Presley. Joy magari non ripete appieno l’exploit di sei anni fa – il quale aveva anche dalla sua l’effetto sorpresa –, ma ci va maledettamente vicino.