Il nuovo trend è l’Alternative Rock, dicevamo da un’altra parte pochi giorni fa. Oppure, se proprio volete, chiamatelo “Indie Rock”, a evocare quella clamorosa epopea che grazie ai Sonic Youth e a un indefesso lavoro di preparazione durato quasi due decenni, portò i Nirvana sul tetto del mondo e ribaltò paradossalmente i paradigmi, costringendo un’estetica, volutamente disadorna e lo-fi, a confrontarsi con i salotti dorati del music business. Durò poco, grazie al cielo, e lasciò strascichi da cui non ci siamo mai del tutto ripresi: il successo commerciale assomiglia più a una condanna che a una benedizione, comporta aggiustamenti e correzioni di rotta che non tutti sono in grado di compiere, ragion per cui non tutti gli eroi della nostra infanzia sono usciti benissimo dalla loro golden age.
Non sono abbastanza preparato per poter dire se sia un errore o meno, ma è certo che ormai nulla è rimasto se non la ripresa e l’imitazione del passato, in tutte le sue forme. Oggi, che pare che tutto sia stato detto e scritto, che la reazione, istintiva o sentimentale che sia, sembra essere tutto ciò che ci resta, la formula praticata pressoché ovunque (tranne nei progetti improntati alla ricerca pura, ma anche qui la questione è opinabile) è quella di rifarsi ai propri ascolti preferiti, rubricando alla voce “originalità” (parola in ogni caso senza più senso) solo quella fantasia che ci vuole a combinare insieme le varie influenze.
A volte funziona, a volte no: l’indigestione di Post Punk che abbiamo subito negli ultimi anni è stata tutto sommato piacevole; adesso, proprio nel momento in cui gran parte di noi ha manifestato il desiderio di cambiare, ecco arrivare puntuali nuovi periodi da rivivere, dallo Shoegaze al Dream Pop, fino al già citato Rock Alternativo anni ’90, declinato in tutte le sue molteplici sfumature.
In ogni caso, a tutto ero preparato, tranne che ad imbattermi, appena entrato nella sala principale dell’Arci Bellezza, in una marea di ragazzini adolescenti o poco più, ammassati nelle prime file con l’espressione di chi ha atteso questo giorno per tutta una vita.
I Julie, devo confessare, me li ero persi in pieno: My Anti-Aircraft Friend, l’esordio dello scorso anno, mi era scivolato via del tutto inosservato, nonostante uscisse per Atlantic e nonostante un EP come Pushing Daisies, che aveva contribuito non poco a smuovere le acque. Evidentemente però, qualcosa era successo: come in tutte le migliori onde di ritorno, favorite spesso e volentieri dall’oscuro meccanismo degli algoritmi di TikTok (è accaduto anche con Tame Impala, Arctic Monkeys e Slowdive in tempi recenti) una band che fa le stesse identiche cose che (con le dovute proporzioni, si intende) ai tempi resero famosi Sonic Youth e My Bloody Valentine, si accinge ora a conquistare le giovani generazioni, probabilmente anche non così ignari delle fonti (ho intravisto qualche maglietta di Goo, per quello che può valere).
Ad ogni modo il locale è sold out, esattamente come successo per i Ditz appena qualche giorno prima: vuoi vedere che mentre noi ce ne stiamo seduti tranquilli (si fa per dire) le cose cominciano a cambiare sul serio?
Mentre proviamo a rispondere, arriva per i Robber Robber il turno di salire sul palco: il quartetto del Vermont ha pubblicato Wild Guess a luglio e ha cominciato a farsi notare tra gli addetti ai lavori, prima di ottenere l’occasione di questo tour europeo in compagnia della next big thing del momento. Pur nella giovane età, Nina Cates (voce e chitarra), Will Krulak (chitarra), Carney Hemler (basso) e Zack James (batteria) hanno già un bel curriculum, visto che due di loro hanno iniziato a fare musica insieme già nel 2017, quando ancora frequentavano le scuole superiori, e prima di quella odierna avevano vissuto una precedente esperienza come The Snatz.
Nella mezz’ora che hanno a disposizione fanno capire che le belle parole che la critica ha speso sul loro esordio non sono state dette a sproposito: il tiro è notevole, già da band navigata, il wall of sound che riescono a creare è davvero efficace, con le chitarre in primo piano che si muovono tra oscurità Post Punk, divagazioni Noise e sporadici fraseggi melodici. La voce di Nina Cates ha un timbro particolare e, pur se tenuta molto bassa nel mix generale, ricama linee vocali non scontate e molto poco orecchiabili, che tuttavia si incastrano bene nel quadro d’insieme.
Piacevolmente dissonanti, rumorosi ma anche inaspettatamente riflessivi, i Robber Robber sono senza dubbio da tenere d’occhio, anche se per quanto riguarda la scrittura i margini di miglioramento sono ancora molti.
Cambio palco piuttosto lungo, a far crescere l’attesa, ed ecco i Julie, che prendono con slancio possesso dello stage, sulle note di “Catalogue”. La reazione del pubblico è sorprendente: singalong, pogo e stage diving partono immediatamente e saranno una costante per tutta la durata del set. È evidente che è successo qualcosa, che la band ha fatto breccia nei cuori dei fan e che questo non è il semplice concerto dove si va a curiosare il gruppo nuovo di turno; al contrario, qui c’è una realtà già consolidata, con una fanbase appassionata e partecipe oltre ogni aspettativa della vigilia.
Dal canto loro, Keyan Pourzand (chitarra e voce), Alexandria Elizabeth (basso e voce) e Dillon Lee (batteria) appaiono consapevoli di tutto questo: portano avanti la scaletta con caparbietà e decisione, apparentemente indifferenti al macello che sta accadendo attorno a loro, non parlano praticamente mai (giusto un paio di parole di ringraziamento da parte di Keyan) e tra un pezzo e l’altro si prendono lunghe pause per accordare gli strumenti, intrattenendo il pubblico con intermezzi di feedback, rumori, effetti e qualche stacco isolato di batteria. È un qualcosa che anche i Sonic Youth facevano a inizio carriera ma qui, più che un’impasse dovuta all’inesperienza, appare piuttosto come una posa ben studiata per far crescere la tensione.
Per quanto mi riguarda, ottiene l’effetto opposto di far perdere coesione alla performance, che sarebbe senza dubbio risultata più efficace se i brani fossero stati eseguiti uno via l’altro.
I tre risultano comunque compatti e ben affiatati, i suoni sono ottimi, specialmente quelli di chitarra, le esecuzioni grezze e al contempo prive di sbavature. Semmai, quello che non funziona del tutto sono proprio le canzoni: non tanto per il loro eccessivo carattere derivativo (ho utilizzato fin troppo spazio per spiegare che oramai funziona così e non deve essere per forza un problema) quanto per il fatto che, il più delle volte, appaiono fuori fuoco, dispersive e prive di un hook davvero irresistibile.
Ci sono delle cose che funzionano meglio di altre: “Flutter”, che è stato anche il loro primo singolo, “Very Little Effort”, la già citata “Catalogue”, che è il brano con cui sono esplosi, la più articolata “Piano Instrumental” (col pubblico impazzito che salta cantando il tema del riff portante), la tiratissima“Lochness”, che ha chiuso il concerto su divertenti atmosfere Punk.
Ci sono però anche momenti di confusione e incertezza, che fanno intravedere una band notevole dal punto di vista del tiro e dell’impatto complessivo, ma che ha ancora molto da imparare sul fronte dell’assemblaggio e della realizzazione delle idee.
Non fraintendetemi: è stato un bel concerto, tutto sommato. E soprattutto, c’erano un centinaio di ragazzi entusiasti; un elemento che, se unito ai consensi che il trio di Orange County sta ricevendo un po’ dovunque, mi fanno pensare che probabilmente sono io ad avere torto (tra parentesi, ci sarebbe poi da capire quanti dei giovani fan che mandano sold out certi eventi, contribuiscano poi alla crescita generale della scena, soprattutto qui da noi; ma temo che occorrerebbe un articolo a parte).
Eppure, se penso alle recenti uscite di Been Stellar, Ditz e Wunderhorse, mi verrebbe da dire che oggi il discrimine non sta nell’originalità o meno della proposta e neppure nella bravura in sede live: la differenza, quella vera, la fanno le canzoni. E questo, temo sia un requisito più difficile da soddisfare.
Al momento i Julie sono una band dall’ottimo potenziale, ma spero mi scuserete se non riesco ad unirmi al plauso generale.