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REVIEWSLE RECENSIONI
K.G.
King Gizzard & The Lizard Wizard
2020  (Fightless Records)
INDIE ROCK PSICHEDELIA ALTERNATIVE ROCK
8/10
all REVIEWS
16/12/2020
King Gizzard & The Lizard Wizard
K.G.
Sedici album in dieci anni di carriera sono un bottino invidiabile, soprattutto quando il livello qualitativo non ha mai praticamente subito flessioni.

Dall’inizio del lockdown, che non ha colpito più di tanto la loro nativa Australia ma che ha comunque messo in standby tutti i progetti di concerti futuri, la band di Stu Mackenzie non si è comunque fermata. Prima il live “Chunky Shrapnel”, che ha ripreso alcuni momenti salienti del tour dell’anno precedente; poi il film di cui il suddetto disco era colonna sonora, che nell’impossibilità di essere proiettato al cinema è stato fatto vedere in streaming a pagamento per un giorno soltanto; aggiungiamo nuovi live caricati su Bandcamp e in vendita per pochi spiccioli (Bruxelles e Asheville, sempre dal tour del 2019); e poi, come se tutto questo non bastasse, la contemporanea release di un disco in studio e uno dal vivo, questa volta però trattato come una normale uscita ufficiale e quindi disponibile su tutte le piattaforme.

“K.G.” è appunto il capitolo numero sedici per questi simpatici aussie, arrivati ad un livello di prolificità che ormai solo i Guided By Voices riescono a superare (ma lì siamo ben al di là del paranormale, oltre al fatto che Robert Pollard ha iniziato decisamente prima a far musica) e dimostratisi apparentemente schizofrenici nelle numerose evoluzioni e giravolte da loro compiute, correndo dietro a generi musicali anche molto diversi tra loro.

Dico apparentemente perché poi, se si guarda bene, non è difficile trovare un filo conduttore in tutta questa varietà, ed è una narrazione che parla soprattutto di riff granitici e fughe lisergiche, una dimensione psichedelica ed un’attitudine ironica sempre presenti anche nella loro declinazione più Metal.

A questo giro le cose si fanno un po’ più semplici e già a partire dal titolo si capisce che il nuovo lavoro vuole essere un po’ una dichiarazione d’intenti e un po’ un ritorno alle origini, forgiando un suono che possa essere il più possibile un compendio di quanto fatto in questi primi dieci anni di vita come band. Da parte loro, hanno espressamente dichiarato di essersi rifatti a “Flying Microtonal Banana”, il primo dei cinque dischi pubblicati nel 2017, dove avevano lavorato soprattutto sulla musica microtonale; tuttavia, a parte gli evidenti richiami a questo lavoro (anche se una vera e propria killer track come “Rattlesnake” qui non è presente), “K.G.” si muove su terreni ben conosciuti e già esplorati agli esordi (penso soprattutto a “Float Along – Fill Your Lungs”) o in tempi più recenti (“Gumboot Soup”, sempre del 2017). Decisamente una buona notizia per chi non aveva troppo digerito le incursioni nell’Heavy di “Murder of The Universe” e “Polygondwanaland” e soprattutto nel Thrash di scuola Bay Area del precedente “Infest The Rats’ Nest”.

Già l’intro, che affida al flauto e alla tastiera una semplice melodia orientaleggiante, che va subito a confluire in “Automation” (uno dei singoli che erano stati diffusi nelle scorse settimane), col suo tipico riff sghembo e settantiano, ci immerge subito in un’atmosfera famigliare e non si può che sentirsi a casa.

Il tutto è poi mixato come se fosse un live, coi vari episodi che si susseguono in una sequenza ininterrotta, con strutture minimali e momenti in cui sembra di trovarsi dentro una grande Jam, dove più che le canzoni prese singolarmente conta il groove che viene sprigionato.

E di groove il collettivo australiano se ne intende: che siano in studio di registrazione o su un palco, filano sempre via che è un piacere, sanno come tenere desta l’attenzione e far muovere la testa, sia che si tratti di costruire quasi tutto un pezzo alla chitarra acustica (“Straws In The Wind”, che è abbastanza lunga e che vive di continue aggiunte e sottrazioni, mantenendo però costante il tema di fondo) sia che si lancino in sequenze mozzafiato tutte da ballare: da questo punto di vista, la sezione che comincia con “Ontology”, con le percussioni miste a fiati a ricamare ritmi Etno Folk, è da capogiro: nel finale si accelera ed entra la chitarra per un solo rumoroso e sfacciatamente Old School, poi parte “Intrasport”, che ha Beat e voci filtrate sopra un wah wah assolutamente irresistibile; e da qui un altro crescendo fantastico, con le tessiture ritmiche e il gran lavoro di chitarra di “Oddlife”.

Nel finale il singolo “Honey” arriva un po’ a riportare la quiete e a stemperare la tensione ma a conti fatti è forse il brano più debole del disco. Molto meglio la conclusiva “The Hungry Wolf of Fate”, che sporca notevolmente il suono, inserendo potenti accordi di chitarra distorta.

Un lavoro nel complesso più accessibile rispetto agli ultimi, che magari risulterà meno sorprendente per chi li segue da tempo ma che potrebbe essere particolarmente indicato per chi fosse incuriosito ma anche intimidito da una discografia fin troppo corposa.

A tale uscita si aggiunge, come già detto, il “Live in San Francisco ‘16”, registrato nella città californiana durante il tour di “Nonagon Infinity”, con una scaletta incentrata su quel disco ma anche con diversi pezzi presi dal passato, perfetta rappresentazione di quello che i sei sono in grado di combinare sul palco (i dieci minuti di “The River” e il mastodontico finale con “Head On/Pill” valgono da soli l’ascolto).

Direi che di roba per ingannare il tempo in attesa che riprendano i concerti ne abbiamo.


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