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REVIEWSLE RECENSIONI
Kingdom Of Oblivion
Motorpsycho
2021  (Rune Grammofon/Stickman Records)
IL DISCO DELLA SETTIMANA ALTERNATIVE ROCK
7,5/10
all REVIEWS
19/04/2021
Motorpsycho
Kingdom Of Oblivion
Non verranno mai spese abbastanza parole per raccontare quanto sia straordinaria una band come i Motorpsycho. Sempre che sia necessario farlo e che non basti davvero ascoltarsi uno degli innumerevoli episodi della loro discografia, per rendersene conto.

Incurante di generi e mode, devoto al duro lavoro e all’espressione della propria creatività, il trio norvegese si è ritagliato negli anni una fan base solidissima, ha girato il mondo in lungo e in largo con i propri show roventi, generando un fenomeno di culto semi iniziatico fatto anche di libri e mostre, oltre che una devozione viscerale per tutto ciò che è supporto fisico (senza peraltro trascurare lo streaming, in un doveroso e strategico adeguamento allo spirito dei tempi), tanto che il loro merchandising è indubbiamente tra i più meritevoli di essere collezionato e posseduto.

Per gente abituata a stare costantemente in tour (ce li ritrovavamo in Italia quasi una volta all’anno, per dire) la pandemia è stata decisamente dura ma era anche piuttosto ovvio che non sarebbero ricorsi a forme surrogate di live come hanno fatto molti loro colleghi: ve li immaginate a stare al servizio delle telecamere in uno studio di registrazione o in un teatro vuoto, loro che si sono sempre divertiti come matti a bombardare i fan con tonnellate di decibel (l’ultima volta ero a Brescia, mi è venuta la malaugurata idea di mettermi in prima fila e ho avuto le orecchie sanguinanti per una settimana buona)?

Naturale dunque ricorrere alla loro seconda attività preferita: registrare dischi. “The All Is One” è uscito meno di un anno fa, durava quasi 90 minuti e aveva dentro un pezzo che viaggiava sui 45: non esattamente una cosa facile da digerire. Così, per non farsi mancare nulla, ecco arrivare “Kingdom of Oblivion”, figlio di quelle stesse session divise tra la Francia (Black Box Studio) e casa loro a Trondheim e primo capitolo dopo la fine della “Gullvåg Trilogy”, come la copertina, bianca e del tutto diversa dalle precedenti, lascia immediatamente intuire.

Descrivere questo nuovo capitolo di Bent Sæther, Hans Magnus Ryan e Tomas Järmir (quest’ultimo è ormai parte effettiva della line up, visto che compare anche nelle foto promozionali) non è semplice e non solo perché la durata è ancora una volta importante (niente più doppio cd ma arriviamo comunque a 70 minuti). Sono anni che i norvegesi hanno rinunciato a meditare sulle loro composizioni e a ragionare su possibili percorsi (ammesso e non concesso che lo abbiano davvero fatto in passato), per cui almeno dal 2008, con “Little Lucid Moments”, i suoni si sono notevolmente appesantiti e la componente Stoner ha iniziato a divenire preponderante. Lo scrivo ad ogni recensione ma d’altronde non è un romanzo, certi concetti si possono tranquillamente ribadire: i vecchi fan si sono un po’ infastiditi, hanno accusato il gruppo di essere divenuto fin troppo ripetitivo, di essersi trasformato in un qualcosa di prevedibile e dunque poco eccitante. È senza dubbio vero ma bisogna anche dire che da una parte è un processo fisiologico (una crescita infinita a livello artistico e stilistico è pressoché impossibile, prima o poi si raggiunge una comfort zone e non la si abbandona più) dall’altra che di veri e propri cali qualitativi non ce ne sono mai stati. Ogni disco dei Motorpsycho è un piccolo gioiello, l’unica cosa che si potrebbe obiettare è che solo i fan accaniti sentiranno davvero il bisogno di ascoltarli e metabolizzarli tutti. Ma non vale forse così per ogni band che conosciamo?

Detto questo, “Kingdom of Oblivion” contiene più o meno gli stessi ingredienti del suo predecessore ma ne muta in qualche modo la formula, introducendo qualche piccola novità in più.

“The Waning”, già singolo apripista ma qui presente in una versione più lunga, inizia col solito riff e il solito cantato, un bel tiro Heavy Psych con una sezione ritmica che funge da terreno per assoli, anche nella seconda parte dove la furia si stempera un po’. La title track prosegue sulla stessa falsariga ed è uno degli episodi meglio riusciti, col suo riff lento e massiccio in apertura, per un mid tempo cadenzato e stacchi dal sapore epico. C’è anche un bel ritornello cantabile, una soluzione che negli ultimi tempi non hanno provato molto spesso. Ed è anche interessante il finale, una sorta di breve scazzo acustico apparentemente slegato dal resto ma che lancia piccoli segnali di quel che succederà più avanti.

La componente classica del loro sound è espressa anche da un paio di pezzi mediamente lunghi, tra gli otto e gli undici minuti: “The United Debased”, un altro mid tempo ben costruito, con un break centrale molto efficace che fa da preludio ad una seconda parte dal sapore sabbathiano; e poi c’è quell’accelerazione di ritmo nel finale, con una ritmica da headbanging sfrenato. “At the Empire’s End” invece alterna momenti acustici ad altri più carichi e nel complesso scorre via piacevole; al contrario, “The Trasmutation of Cosmopoctus Lurker” risulta un po’ prolissa, anche se le divagazioni Prog della parte centrale ripropongono i Motorpsycho al top dell’intensità.

La parte più interessante del disco è quella centrale: “The Watcher” è la traccia più atipica della scaletta, sorta di decostruzione di una loro canzone tipo: Ambient, Drone Music, vocal sussurrate e una linea di basso minimale a pulsare costante, il tutto con tastiere che crescono d’intensità e accordi dissonanti. Lontana parente delle cose che facevano con Deathprod, è comunque una soluzione inusuale in questo ultimo periodo. La successiva “Dreamkiller” ne appare quasi la naturale prosecuzione, acustica ma non in senso classicamente Folk: piuttosto, si apre come una nenia onirica, poi entra il distorsore su una base di Glitch e si risolve tutto nella tipica magniloquenza a la Motorpsycho. Ottimo il lavoro di percussioni ed anche una certa atmosfera sulfurea da fine del mondo. In mezzo, una serie di bozzetti acustici in chiave bucolica che non aggiungono nulla ma che prolungano questo momento in cui la band non pigia sull’acceleratore ma vira maggiormente sulla psichedelia non disdegnando deboli incursioni nella sperimentazione elettronica.

Ed è anche interessante notare come ogni tanto si ricordino di saper scrivere anche mantenendosi all’interno della forma canzone, un po’ come accadeva ai vecchi tempi: “The Hunt” arriva verso la fine ed è uno degli episodi più belli, un Heavy Folk dalle venature epiche con una grande Jam nella parte finale.

Un disco nel complesso più vario dei precedenti ma anche più frammentato, con diversi momenti di alto livello ma anche con qualche calo di tensione e nel complesso non facilissimo da ascoltare.

Direi però che è difficile chiedere di più. Non vi consiglierei di iniziare da qui se non li conoscete ma trovatemi un gruppo che dopo 30 anni è ancora in grado di scrivere a questi livelli.


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