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THE BOOKSTORECARTA CANTA
La campana di vetro
Sylvia Plath
1963  (Mondadori)
LIBRI E ALTRE STORIE
all THE BOOKSTORE
09/01/2023
Sylvia Plath
La campana di vetro
La campana di vetro può essere considerato a tutti gli effetti una sorta di diario a cui la Plath ha affidato e confidato, forse nel tentativo di liberarsene, tutte quelle fragilità e tormenti che l’accompagnavano da sempre, facendola vivere come avvolta in una sorta di instabilità emotiva.

“Se nevrotico vuol dire desiderare contemporaneamente due cose che si escludono a vicenda, allora io sono nevrotica all’ennesima potenza.Volerò su e giù dall’una all’altra per il resto dei miei giorni".

 

La campana di vetro è l’unico romanzo scritto da Sylvia Plath (Boston, 1932 – Londra 1963). L’opera venne pubblicata per la prima volta in Inghilterra, nel 1963, esattamente sessant’anni fa. Vista la sua portata spiccatamente autobiografica, l’autrice preferì ricorrere a uno pseudonimo, quello di Victoria Lucas. Solo nel 1967 venne ripubblicato con il suo vero nome.

Visto il contenuto dell’opera, ricorrere a uno pseudonimo, probabilmente, le era sembrata la cosa più ovvia da fare per proteggere sé stessa e la sua famiglia, dal giudizio di amici e conoscenti. La campana di vetro, d’altronde, pur non avendone la forma stilistica, può essere considerato a tutti gli effetti una sorta di diario a cui la Plath ha affidato e confidato, forse nel tentativo di liberarsene, tutte quelle fragilità e tormenti che l’accompagnavano da sempre, facendola vivere come avvolta in una sorta di instabilità emotiva.

Instabilità emotività culminata, a distanza di circa un mese dalla pubblicazione del romanzo, con il suicidio. Aveva solo trent’anni quando, all’alba dell’11 febbraio del 1963, dopo aver preparato la colazione per i suoi due figli, avuti con lo scrittore Ted Hughes, da cui si era separata pochi mesi prima, e aver sigillato accuratamente porta e finestre della cucina, si è tolta la vita infilando la testa nel forno a gas.

 

Una donna fragile e insicura, su cui anche il rapporto tormentato con Ted Hughes ha avuto pesanti ripercussioni. Un amore travolgente, che portò i due ragazzi a sposarsi giovanissimi, mentre frequentavano ancora l’università a Cambridge, tra l’altro, senza far troppo rumore, perché Sylvia temeva di perdere la sua borsa di studio, ma anche doloroso, perché Hughes, a sua volta, non era un uomo “facile”, vista la sua personalità spiccatamente narcisista. Il loro è stato soprattutto un amore malato, fatto di aggressioni fisiche (una di queste le provocò un aborto spontaneo), abusi e minacce. Eppure, ciò che pose definitivamente fine al loro matrimonio non fu tutto questo, bensì il tradimento di Hughes con Assia Wevill (morta anche lei suicida, nel 1969) a cui, i due coniugi, avevano dato in affitto il loro appartamento a Londra. La scoperta dell’adulterio fu per la Plath un colpo durissimo da sopportare, ancora più doloroso di tutte le violenze fisiche e psicologiche subite.

 

Quella di “Lady Lazarus” (titolo di una delle sue poesie più famose), quindi, è la storia di un suicidio annunciato, visto che già in passato non erano mancati altri tentativi. “[…] Morire è un’arte, come qualunque altra cosa. Io lo faccio in modo magistrale, lo faccio che fa un effetto da impazzire / lo faccio che fa un effetto vero. Potreste dire che ho la vocazione. […]”

La Plath non ha vissuto abbastanza per assistere al grande successo delle sue opere, in particolare quella di Ariel, una raccolta di poesie diventata iconica. Quanto a La campana di vetro, dalla sua pubblicazione a oggi, ne sono state vendute milioni di copie in tutto il mondo. Un libro cult, un vero e proprio punto di riferimento per le donne, soprattutto quelle più giovani. Quelle in divenire.

 

Per immergersi nella produzione letteraria di Sylvia Plath, e comprenderla fino in fondo, non si può non tener conto della sua personalità, del suo vissuto, del suo disagio interiore, del suo tentativo di rifiutare e opporsi a tutti quegli schemi e convenzioni in cui la società, non solo ai suoi tempi, ma anche oggi, tende ad imprigionarci. Come se, per sentirsi accettati dagli altri e far parte di una comunità, fosse assolutamente necessario aderire a schemi comportamentali universali già scritti da altri, secondo quella che è la loro visione di ciò che è giusto e di ciò che si dovrebbe o non si dovrebbe fare. Veri e propri cliché comportamentali a cui soprattutto le donne dovrebbero obbedire, due su tutti: sposarsi e avere figli. La Plath, esattamente come Esther, la protagonista del romanzo e suo alter ego, non si sentiva mai “giusta” e tutti i tentativi da lei fatti per uniformarsi, non hanno fatto altro che alimentare la sua dicotomia e il suo malessere.

 

La campana di vetro è ambientato negli anni '50 e racconta la storia Esther Greenwood, una studentessa di lettere di diciannove anni, molto intelligente e creativa, che ottiene uno stage presso una rivista di moda, e si trasferisce per un mese a New York. 

Durante quel soggiorno, completamente spesato, la ragazzina di provincia viene catapultata in un mondo nuovo, sfavillante, in cui si ritrova a fare esperienze mai fatte prima: “Montagne di buoni acquisto, biglietti per il balletto, inviti a sfilate di moda, sedute gratis da un famoso e costosissimo parrucchiere…”, frequentazioni di un certo tipo, spasimanti, ristoranti di altissimo livello e cibi pregiati. Eppure, fa fatica ad adattarsi, a trovare una sua dimensione e soprattutto, non riesce a provare piacere per quei piccoli lussi e privilegi che sta vivendo. Nella sua testa, e non capisce il perché, continua a pensare ai Rosenberg: “Fu un’estate strana, soffocante, l’estate in cui i Rosenberg morirono sulla sedia elettrica, e io ero a New York e mi sentivo come un’anima persa”.

Finito il periodo dello stage, Esther fa ritorno a casa, in Massachusetts, e apprende di non essere stata accettata a un corso di scrittura a cui teneva tantissimo. Per lei è un colpo durissimo. “Per tutto il mese di giugno, mi ero vista davanti il corso di scrittura come un ponte luminoso e sicuro sopra il torbido abisso dell’estate. Adesso lo vidi vacillare e sbriciolarsi, trascinando nella voragine un corpo con camicetta bianca e gonna verde.”

Si sente improvvisamente priva di prospettive e inizia a mettere in dubbio le sue capacità. Allora decide di impiegare le sue vacanze estive per scrivere un romanzo di cui sarebbe stata lei stessa la protagonista, ma quasi subito decide di abbandonare l’idea. Si sente troppo noiosa e si interroga su come avrebbe mai potuto scrivere della vita senza saperne nulla, senza aver mai avuto una storia d’amore o un figlio…

Ed è a questo punto che lo sprofondo di Esther ha inizio, o meglio, è a questo punto che tutto il disagio che già la abitava, comincia ad affiorare attraverso manifestazioni estreme.

La depressione prende il sopravvento. Esther si trasforma in un automa, non riesce più a provare piacere per nulla. Non riesce a dormire, a mangiare, a scrivere… Il suo unico desiderio è quello di trovare il modo per annientarsi. Pagine e pagine che descrivono minuziosamente tutti i modi in cui medita di suicidarsi, fino a quando non ci prova davvero, nel tentativo di fuggire da un mondo che sente ostile, da un mondo che non la vuole e che non riconosce i suoi meriti e le sue capacità. Un mondo gabbia, in cui puoi vivere serenamente solo se accetti tutte le sue regole, se le rispetti.

Elettrochoc, ospedali psichiatrici… Esther si sente soffocare, come se fosse intrappolata in una campana di vetro… “Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo.”

 

La vita di Esther avrà un epilogo diverso da quello che ha avuto la vita di Sylvia? Non voglio svelarvi nulla a riguardo, però, una cosa è certa, è praticamente impossibile leggere questo romanzo senza pensare costantemente che Sylvia Plath ha vissuto tutto questo disagio, tutto questo malessere, tutto questo dolore in una fase della vita in cui, normalmente, i giovani costruiscono la propria identità e gettano le basi per il proprio futuro. Un disagio che non le ha mai concesso una tregua, eppure, era dotata di immenso talento, tant’è che all’età di otto anni ha visto pubblicare la sua prima poesia. Aveva tra le mani tutte le carte giuste per riuscire a vivere una vita che fosse all’altezza delle sue aspettative...

Una bambina che ha dovuto fare i conti con la morte prematura di suo padre. Una personalità estremamente complessa e conflittuale, al punto che c’è chi suppone che soffrisse di un disturbo bipolare. Una donna intrappolata tra il desiderio di dedicarsi interamente alla sua arte e quello di vestire i panni della moglie e madre perfetta, in linea con quelle che erano le aspettative della sua epoca e forse, anche della nostra.

 

La campana di vetro non è una lettura semplice, e tantomeno leggera. Non per il linguaggio, che anzi, è estremamente lineare, ma per il peso delle parole usate, talmente chiare e dirette da riuscire a trasmettere al lettore tutta l’intensità del suo tormento, come fossero una raffica di stilettate.

Un libro complesso, perché sono tanti i temi che affiorano e su cui ci si potrebbe soffermare, ma come spesso accade, sta al lettore riuscire a focalizzare l’attenzione su quelli che sente più vicini a sé stesso e al proprio vissuto. Tutti, nel corso della vita, facciamo i conti con uno o più demoni… alcuni riusciamo a sconfiggerli e altri, invece, continuano a camminarci accanto, fino alla fine dei nostri giorni: “Dovrebbe esistere un rito, pensai, per celebrare la seconda nascita – per quando si è stati rattoppati, ricostruiti e omologati per la strada”.