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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
17/10/2018
VINILI
La decostruzione pop rock dei NIMBY
Utilizzo decostruzione come parola chiave per avventurarci all’ascolto di questo nuovo disco dei NIMBY. Non certo di recente pubblicazione e non di meno foriero di decostruzione in senso letterale.

Anzi: dal suono assai ricco di groove e ben equilibrato fino alle strutture pop rock conosciute, i cliché di circostanza sono ampiamente rispettati, anche con carattere certamente, anche con gusto ed efficacia alle volte sorprendenti per essere giovani. Non è la decostruzione in senso fisico e letterale dunque. È decostruzione in senso spirituale. Perché ecco l’ennesima riprova di come dietro la musica costruita su sentieri comunemente riconosciuti, si celino ampie vedute poetiche e di pensiero, ampi margini per intavolare conversazioni di grandissimo pregio. Il tutto ci appare come un semplice disco, come una canzone che vien spesso bistrattata dalla somma sufficienza di tutti come dalla superficiale intenzione di fermarsi ad ascoltare ciò che non si conosce. Solo decostruendo il disco negli ingredienti che lo compongono si arriva alla bellezza, quella originale, quella forse più importante. Kierkegaard avrebbe molto da insegnarci sulla differenza tra etica ed estetica. Decostruendo appunto, come a dire indagando, come a volersi fermare per andare oltre.

Con Tommaso La Vecchia e Aldo Ferrara scivolo in domande poco consuete e da queste poi ricevo risposte pregne di concetti, di mondi, di visioni, di filosofie personali. Pensatori dunque, a loro modo, pensatori vivi e vegeti di buona salute dietro un disco che la critica può fermarsi ad etichettare come un altro esempio di pop-rock della scena indie. E basta. Fine della storia? Direi proprio di no…

Un suono che Fusaroli incastra con la solita maestria di cui è capace e, mi pare, anche evolvendosi dai suoi format più abitudinari. Arrangiamenti composti, misurati, che finalmente valorizzano la scrittura e non si sostituiscono ad essa da protagonisti. Un vinile che è bello anche solo da avere per la copertina ed il retro dipinte ed immaginate dall’artista Andrea Grosso Ciponte.

Si intitola “NIMBY II”, la loro seconda prova: si mostra fluida e popolare, si dimostra solida di carattere e bella di estetica melodica. Ma ribadisco un punto di svolta: spesso, soprattutto nella scena meno conosciuta, c’è tanto dietro le canzoni… un tanto che la mediaticità di oggi tende a banalizzare, tende a rendere fluido come acqua, oggetto di mercanzia e roba futile che deve passare nel breve consumo. Non esistono solo i pensatori che riconosciamo come tali quando è la televisione ad avercelo detto. L’ascolto non è bastevole da sé perché si compia l’opera tutta. Bisogna fermarsi, indagare, capire che tipo di pensiero esiste all’origine. Un burattino del mainstream non saprebbe cosa dire di quel che porta in scena confezionato ad arte per lui dall’industria. Qui parliamo di artigianato. Ed è così che dopo una chiacchierata che non avrebbe mai smesso di esistere, il nuovo disco dei Nimby sembra più bello di prima. Non è la musica che salverà il mondo. Sarà la nostra dedizione a farci domande che ci porterà a far bene la rivoluzione.

Partiamo dal nome e nel nome restiamo. Nimby. Cosa significa? Parliamo del nome perché poi parliamo di garage…

Aldo: Il nome vuol dire Not In My Back Yard (non nel mio giardino) e riguarda i fenomeni di opposizione comunitaria alla costruzione di opere invasive dell’ambiente circostante. Può essere intesa sia come opposizione acritica, frutto di una impostazione individualistica della coscienza collettiva e sia come una opposizione consapevole della forza resistente della volontà popolare che può trasformare l’esistente. Questo acronimo lo abbiamo scoperto io e Tommy all’epoca dell’Università in un libro di Filosofia del Diritto; ci sembrava molto attuale e confacente ad un gruppo rock indipendente.

Scorrendo la vostra musica che dall’acido del garage si è resa dolce di pop nonostante i suoni, sento viva quell’Italia che un tempo viveva nelle province, nei dopo scuola, nei bar di quartiere. Quanto pesa per voi e per la vostra musica questo immaginario?

Aldo: Beh, sicuramente la nostra musica è frutto di come si condivideva un tempo la passione per la musica. Nonostante la scelta di incidere il vinile, il formato con cui ci siamo innamorati del rock è il CD. Quando Napster incominciava a farsi strada e minacciare il mercato discografico, noi sceglievamo di acquistare i dischi, ascoltarli insieme e masterizzarceli a vicenda. Questo ha influenzato notevolmente il nostro approccio alla composizione. Mi ricordo quando tra un esame e l’altro di diritto io e Tommy ci chiudevamo in stanze spesso piccolissime (quelle tipiche degli studenti universitari) per evadere dal quotidiano attraverso nuovi territori sonori. La nostra realtà è estremamente di provincia; siamo la periferia della periferia dell’impero, e per sconfiggere “la noia”, la fantasia è necessaria, così si evitano decadenze esistenziali.

Tommaso: Concordo. Aggiungerei che mentre prima della rivoluzione dei social la realtà di provincia era un incubatore estensivo, nel senso che serviva per uscire fuori da quella realtà spesso vissuta come stretta da chi la viveva, adesso il richiamo a quelle dinamiche e a quei simboli ha un valore per così dire evocativo, quasi di ritorno ad una quotidianità perduta.

Oggi “Nimby II” in qualche misura voglio celebrarlo proprio perché nel 2018 ancora mi fa sentire figlio degli anni ’90 di quello scenario che dicevamo sopra. A guardarvi 10 anni fa, dov’è finito quel “punk” adolescenziale che avevate? E perché si è in qualche misura tramutato in un pop più da melodia vincente?

Tommaso: Diciamo che quello di 10 anni fa è stato un primo approccio in cui però la melodia non è mai mancata. Poi, dopo tanti cambiamenti di formazione e, soprattutto, con la decisione di scrivere i testi in italiano, quella melodia grezza, che emergeva direttamente dalla musica si è trasformata in qualcosa di più elaborato  anche perché le potenzialità espressive di una lingua come quella italiana sono differenti, c'è una musicalità differente, una narrazione con tempi totalmente diversi che non consente di fare le stesse cose che si fanno quando si canta in inglese a meno di non voler risultare abominevolmente forzati. In questo la produzione ha dato un contributo essenziale. È stato un lavoro nuovo e stimolante. 

Sono tantissime le figure a pastello di questo disco. Tra tutte punto il dito su “Rijeka Boat”. Ce la raccontate? Chi è quel pittore?

Tommaso: C'è una tendenza contemplativa nei testi. Per me è stata una novità e l'ho affrontata cercando di capire cos'avevo dentro aiutandomi con delle letture per trovare ispirazione. In particolare “Rijeka Boat” è un dipinto in movimento; la rappresentazione di una piccola baia croata (un abbraccio morbido... visto dal mare), delle cose che la popolano e che danno la misura della ciclicità della vita. In un certo senso, mentre prendeva forma il pezzo avevo la sensazione che non ci fossero legami col tempo e che quell'immagine si sarebbe potuta ripetere, senza variazioni significative, in ogni epoca. La cosa mi ha fatto pensare ad un libro bellissimo di Baricco che ho letto tanto tempo fa: “Oceano Mare”. In uno dei racconti (che poi sono anche persone) che lo compongono c'è questo pittore, di nome Plasson, che, dopo una vita spesa a dipingere ritratti, diventando ricco e famoso per questo, comincia a coltivare il desiderio di dipingere il mare... il risultato è che torna ogni sera a casa in questa locanda fuori dal tempo, con una nuova tela bianca, sulla quale aveva steso delle pennellate di acqua di mare. Dava anche un nome ai quadri (Oceano Mare in vari formati).

In pratica non dipingendo nulla aveva reso l'idea dell'impossibilità di ingabbiare il movimento, anzi, addirittura della necessità di annullare la propria presenza per trovare il senso delle cose e, dando poi un nome alla tela, evidentemente un esercizio di autoreferenziale compiacimento, aveva, ripiombando brutalmente nella sua umanità, dato la misura dell'inutilità dei tentativi umani di definire il mondo. Geniale e melanconico allo stesso tempo, come tutto il romanzo del resto.  

E quindi veniamo alla copertina del disco. Bellissimo dipinto di Andrea Grosso Ciponte. Se vi dicessi che mi viene in mente proprio il passato ed il futuro che si incontrano? La mia sensazione di suono coincide con quella visiva. La vostra chiave di lettura invece?

Tommaso: la sensazione è quella ed è la stessa che ha avuto Andrea ascoltando il disco. La chiave di lettura va ricercata anche guardando il retro che è un altro dipinto - sempre di Andrea ovviamente - con un casco d'astronauta senza una figura al suo interno.

Dall'opacità della realtà, che non lascia che intravedere l'essenziale (sospeso tra passato e futuro), alla verità possibile che si può trovare nell'universo dove però c'è un astronauta senza astronauta. Credo sia un bel modo di dare conto della grandezza dell'uomo che è, paradossalmente, la risultante dei suoi limiti fisici. La possibilità di pensare un “oltre” è lo spazio dove l'arte può costruire significati, dove il senso del mistero ti pervade e qualunque luce, anche la più fioca può diventare una strada da percorrere.  

Aldo: diciamo che Andrea è riuscito a cogliere il messaggio non solo grazie al suo talento, ma anche grazie al fatto che l'opera pittorica è stata realizzata ascoltando il nostro album. Noi abbiamo subito sposato l'idea del miscuglio tra passato, presente e futuro, tempi che possono unirsi esclusivamente con la musica, la forma d'arte più completa secondo molti pensatori. La musica non deve perdere questa funzione catartica ed evocativa e, anche se rispetto al primo disco siamo meno lisergici, abbiamo voluto portare avanti questo messaggio.

Ascoltando “La noia” mi viene in mente la scena milanese dei Guignol o dei Calibro 35. Ma in generale, quali sono le ispirazioni?

Aldo: non sbagli, infatti. Il brano è il più bluesy del disco, in pieno stile alternative, dove sonorità fuzz californiane e incastri noise si incontrano. Ci soddisfa molto qui il rapporto tra liriche e musica, perché coerenti tra loro. Ci troviamo tanto le nostre influenze sia british che desert rock. Per l'italiano molti l'accostano ad un sound Marlene o Verdena, ma più che altro per il background di ascolti e formazione che abbiamo in comune con queste band.

Tommaso: sì... e poi la noia è noia ovunque a Milano come a Catanzaro; quando capita di non aver voglia di far nulla perché non si trova un senso alle cose che magari vanno male. Riempirsi la vita con delle cose belle è la risposta che ha più senso.

Il disco si chiude con un inno alla vita… almeno così mi piace vederlo. Tutto è davvero possibile secondo voi?

Aldo: chiudere con "Universo" ci ha dato prima di tutto la possibilità di spalancare una finestra su un nuovo orizzonte a causa delle sonorità diverse, più electro rispetto a quelle dei brani precedenti. L'esplosione finale vuole significare un grido di speranza liberatorio, quasi gospel, dove la contemplazione è la via e il fine al tempo stesso.

Tommaso: parli bene di inno alla vita, alla vita in senso universale. Anche le più piccole particelle hanno vita a prescindere dalla coscienza ed a prescindere da un fine. Tutto è possibile, non serve neanche crederci.