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THE BOOKSTORECARTA CANTA
La filosofia di Eric Clapton - Il blues come sapere dell'anima
Alberto Rezzi
2018  (Mimesis Edizioni)
CARTA CANTA
all THE BOOKSTORE
29/05/2018
Alberto Rezzi
La filosofia di Eric Clapton - Il blues come sapere dell'anima
L’anima, le sue vibrazioni, il blues ed Eric Clapton: una lettura preziosa

Alberto Rezzi, filosofo e professionista da una parte, chitarrista e claptoniano dall’altra. Così questo libro: di filosofia facendo da un lato, sfogliando e misurando i passi di illustri nomi come quello della Zambrano, di Nietzsche, Heidegger, Kierkegaard e compagnia cantando e dall’altro si va di canzoni ricordando, osservando con devoto rispetto e ammirazione la vita di uno dei più importanti chitarristi/artisti/cantautori del nostro tempo - un tempo diviso in 12 battute come minimo, che non sia mai detto… un tempo che per quanto si voglia correre al futuro digitale, per lui in fondo sarà sempre dipinto di blues. Alberto Rezzi mette a nudo (e di un nudo intimo e celebrale aggiungerei io) Eric Clapton in un libro che ripercorre la sua vita. No, signori lettori, non è una delle tante biografie. Ritroviamo i suoi dischi più importanti e la sua carriera, quello certamente, ma senza fare della didattica sulla discografia e sul genere suonato, senza passare per storici del culto e senza svendere ai più aneddoti di eccessi che tanto piacciono agli amanti del gossip. Dagli inizi fino ad oggi, la chiave di lettura che ci regala Rezzi è quella spirituale e filosofica.

Eccovi un altro interessante capitolo di questa collana che la Mimesis Edizioni sta portando avanti da tempo: la costruzione di un cammino parallelo tra la canzone e il sapere dell’anima. Alberto Rezzi (come gli altri autori di questa collana) sanno mettere in una interessante relazione spesso assai sottile e poco evidente, l’estetica intellettuale con la forma canzone, la filosofia di pensiero e di vita con lo spettacolo e con il suono dei dischi immortali che sono arrivati ad incidere in modo indelebile la vita di tutto il pubblico pagante, quello di ogni giorno e di ogni tempo.

Questo libro si intitola “La filosofia di Eric Clapton: il blues come sapere dell’anima” ed è una lettura che deve affrontare 132 pagine in edizione tascabile che sanno come sfamare la curiosità anche dei più preparati sul campo, che non faticano a contaminare le passioni e ad arricchire la conoscenza. In ogni angolo di questo diario segreto, fatto di luce riflessa e di ombre che risucchiano indietro, si nascondono passaggi che vanno sottolineati, numerosi momenti in cui lo stesso Rezzi mescola gli ingredienti dei grandi riferimenti culturali per darci la possibilità di trascendere dalla lettura stessa e misurare il tutto sul nostro vissuto. Che poi ognuno di noi ha dentro tanto sole quanta oscurità e da letture simili non si può che prendere spunto per un’analisi che sia tutta nostra, pensando vigliaccamente di leggere la vita di un altro. E quando l’altro si chiama Eric Clapton allora tutto può sembrare degno di quel senso di inarrivabilità e di giustificazione. Che poi, sempre da simili letture, ci si porta a casa il consiglio e l’invito ad ascoltarsi (e magari anche comprarsi) dischi che hanno segnato epoche: un viaggio a ritroso nel tempo per riscoprire quanto passato c’è nel futuro che troppo spesso spacciamo come nuovo e originale. Un po’ come a dire: eccovi spiegati i motivi quando si ha voglia di definire immondizia strumentalizzata la maggior parte delle grandi manovre commerciali che l’industria discografica ci impone ogni giorno, forse per educarci all’ignoranza e al cattivo gusto. Ma non è questo il punto. Qui si parla di un libro impegnativo che ci restituisce il vero senso a tutto quel magico suono che continua a regalarci Eric “Slowhand” Clapton.

E fine della storia.

Io partirei dalla spina dorsale di questo libro. Davvero molto interessante il parallelismo tra la musica e la vita di Eric Clapton e questo libro di Maria Zambrano che è “Verso un sapere dell’anima”. Dunque, ti chiedo: cos’è “nato” prima, l’uovo o la gallina? In altre parole: da cosa sei partito per tessere l’idea di questo libro? 

Il libro nasce interamente dalla passione per la figura, la traiettoria esistenziale e la musica di Eric Clapton. Passione di cui mi sono nutrito per anni, inizialmente solo dal punto di vista strettamente musicale. Poi, man mano che ascoltavo e riascoltavo le sue canzoni – in oltre 50 anni di carriera, il repertorio è vastissimo – ho iniziato a scoprire l’uomo Clapton e mi sono interessato alla sua biografia. Ho letto credo cinque volte la sua autobiografia. E lì ho capito di aver trovato una figura straordinariamente interessante, la cui vita è costellata di alti e bassi vertiginosi, che ha saputo ricostruirsi aggrappandosi alla musica, al blues soprattutto, e alla chitarra. Ho intuito che Clapton è riuscito a far fronte a tutte le sue difficoltà grazie ad un “sapere” interiore affine a quello descritto dalla filosofa Zambrano nel suo libro. Un sapere dell’anima che nulla ha a che fare con la filosofia astratta e accademica, ma che nondimeno nutre le scelte, la scoperta delle verità più intime di una persona. E seguendo il filo di questa intuizione ho cercato di mettere in dialogo alcune riflessioni della Zambrano con i percorsi artistici ed esistenziali di Clapton.

Perché penso sia estremamente interessante capire come si arriva a collegare le due cose. Esistono disgiunte, ovviamente lontane di loro nel tempo e nello spazio, ma poi così vicine nella morale di fondo. Sarebbe quindi possibile - o magari ti è venuto in mente - di rileggere la vita di Clapton decodificandola con altre chiavi filosofiche di vita, magari pensando ad altri autori?

Nel libro faccio riferimento alla Zambrano, ma non solo: a seconda dell’aspetto della vita di E.C. che ho indagato, partendo dalla sua infanzia fino ad oggi, ho preso spunto da pensatori come Nietzsche, Heidegger, Kierkegaard, lo stesso Hegel, Patocka, Cioran... La mia è solo una delle possibili chiavi di lettura, naturalmente. Ma certamente l’idea di leggere il blues come il “filtro esistenziale” privilegiato per Clapton mi ha portato a scegliere autori le cui riflessioni potessero in parte riflettere quel “sapere dell’anima” che credo lui incarni. Il blues è una musica autentica, che canta senza troppi artifici il bene e il male che un uomo incontra nella vita, gli angeli e i demoni che siedono alla stessa tavola. Per esprimere filosoficamente tutto questo non potevo basarmi su autori “astratti”, magari ineccepibili sul piano logico e argomentativo, ma poco aderenti al percorso drammatico di un’esistenza che rinasce più volte.

Se per esempio ti citassi (prendendo spunto dalla Zambrano ma anche dalla tua citazione di “Fatum") il “Superuomo” di Nietzsche? Cioè se fosse questa la chiave di lettura, come la descriveresti la vita di Clapton? Sarebbe possibile o approderemmo ad una storia forse poco aderente alla verità? Dico questo osservando il suo continuo “costruirsi” e “rivoluzionarsi” in una carriera in cui la dimensione di band era solo un viatico, un mezzo e non una comunione. Almeno così mi viene fuori dalla lettura di questo libro. Tenendo fede a questo, mi sembra un atteggiamento molto solipsistico quasi come fosse di "meditazione” e di ricerca personale che elude ed esclude il contorno sociale col quale poi invece si interagisce solo per dimostrare quanto si è compreso e si è raggiunto di sé… che ne pensi?

Il “Superuomo” di Nietzsche è un concetto spesso mal interpretato e abusato. Ognuno di noi ne possiede degli elementi, dunque anche la vita di Clapton potrebbe essere letta sotto questa chiave. Ma a me personalmente non avrebbe portato lontano. Più stimolante ho trovato il discorso sul proprio Fatum, cioè su quella vocazione o destino personale con cui dobbiamo fare i conti se intendiamo realizzare la nostra esistenza, se desideriamo compierci, ultimarci come esseri umani. Per Eric, che non è solo una delle tante rockstar da copertina, la vocazione più intima è onorare la tradizione del blues. Il blues è per lui la filosofia prima, per così dire. Il fatto che abbia percorso nella sua carriera molte altre strade, dal rock al reggae al pop, non smentisce quanto detto. È lui stesso a testimoniarlo sia all’inizio della carriera, quando lascia gruppi affermati come i Bluesbreakers o i Cream in nome del suo purismo, sia a partire dagli anni Novanta, quando con l’Unplugged riprende la tradizione blues che lo aveva formato, e da allora si dedica a preservarne l’eredità. In nome di questa fedeltà al blues, giovanissimo, rinuncia al successo facile e alla gloria che le band in cui suonava gli avrebbero assicurato, e le lascia spiazzando tutti. È una grande testimonianza di quanto profondo fosse il suo amore viscerale per questa musica e quanto sentisse l’esigenza interiore di non allontanarsene.

Parlando proprio di questa continua ricerca di evoluzione, questa continua voglia di mutare lo stato di vita e di musica in altro, passando da band a progetti a volte senza troppa logica. Secondo te è stato per Clapton il disordine o la confusione che si ha quando si cerca la propria dimensione andando un po’ a tentoni ovunque si possa oppure è stato il semplice bisogno di dimostrarsi sempre capace di ricostruirsi, di rinnovarsi? Come a dire che l’aver trovato dimostra quanto io sia stato capace di aver cercato e quindi quanto ancora posso trovare se solo mi mettessi in cerca di nuovo...

Clapton ha seguito percorsi “secondari”, come li chiama lui, che lo hanno portato a deviare dalla strada maestra, il blues. Lo ha fatto per varie ragioni: perché si è trovato a gestire un successo spropositato molto giovane, appena ventenne, quando ancora era alla ricerca della propria vera dimensione. Poi, perché la sua indole è quella del “viaggiatore inquieto”, come ho cercato di spiegare in un capitolo del libro, a cui non basta mai quanto conseguito e che sempre aspira ad altro. Ma soprattutto perché a corollario delle sue strade secondarie ha attraversato decenni di dipendenza, prima dalla droga, poi dall’alcol. Un lungo periodo “buio”, che ha influenzato le sue scelte artistiche. Non a caso, una volta rappacificatosi con se stesso e uscito dalle dipendenze, riscopre quel blues che per lui è sempre stato sinonimo di musica salvifica, redentiva, capace di risollevare anche nelle situazioni più drammatiche. E da quel momento ad oggi testimonia con i suoi album questa fonte creativa. Il bellissimo documentario uscito quest’anno sulla sua vita si intitola proprio “Vita in dodici battute”, che sono la struttura portante del blues.

Ad oggi, rileggendo questa carriera, al di là del significato didascalico, pensi che “Epilogo” sia il giusto titolo da dare all’ultimo capitolo del tuo libro? 

È una domanda interessante. Certamente non intendevo indicare con questo una conclusione. I percorsi di interpretazione di questi artisti straordinari devono necessariamente restare aperti, non concludersi mai. Semmai, indicavo l’epilogo della mia lettura dell’universo claptoniano, nella speranza che possa essere lo spunto per altre letture, altre interpretazioni. Come ogni canzone ha un’intro e una chiusura, così ogni libro ha una premessa e un epilogo. È come chiudere un cerchio, un percorso. Nel libro mi sono occupato di molti album di E.C., delle canzoni nelle quali si trova riflesso quel particolare momento della sua vita, e di due grandi artisti che lo hanno ispirato: Robert Johnson e J.J. Cale. Dopo il capitolo dedicato a loro, ho capito che ero giunto al termine del mio viaggio alla scoperta della filosofia di Clapton. Avevo trovato l’accordatura giusta, come dicono i chitarristi ma anche i filosofi, per chiudere il cerchio.

Vorrei chiudere portando il discorso su una sfera del personale. Si evidenzia dalle tue pagine, citando Kierkegaard piuttosto che Pato?ka che, in sintesi (se me lo concedi, sperando di non fare troppi errori di forma e di contenuto), la ricerca di sé passa attraverso il confronto con ciascuna di queste infinite possibilità che abbiamo di fronte ogni giorno. Ogni individuo ha di fronte infinite possibilità. Il chiudersi non è isolarsi bensì il raggiungimento delle radici che sono alla base di una verità, il ciò che siamo veramente. Mi chiedo dunque, che sia la scrittura di libri come questo, quell’isolarsi per celebrare invece l’incontro e il confronto con una di quelle infinite possibilità il mezzo per misurare davvero chi siamo? In altre parole: attraverso la scrittura di vite straordinarie, attraverso l’analisi di quelle dinamiche, si può provare a capire le nostre dinamiche, quelle personali, quelle che magari in altro modo difficilmente avremmo visto?

Senz’altro, non avrei potuto scrivere di Clapton se nella sua storia e nelle sue scelte non avessi trovato la risonanza di aspetti molto personali. Tuttavia, la ragione profonda per cui certi artisti ci affascinano più di altri resta misteriosa, inspiegabile, e questo è anche il suo fascino. Uno dei termini chiave per Clapton è Crossroads, crocevia (Crossroads è il titolo di una celebre canzone di Robert Johnson riproposta da Eric già a fine anni ‘60). Ognuno di noi si imbatte nel percorso della propria esistenza in bivi o crocevia dirimenti: scegliere una strada anziché l’altra richiede consapevolezza, visione, e non sempre ne siamo capaci. A volte serve rintanarsi, isolarsi, entrare in contatto con la propria verità, spesso nascosta e tralasciata, per cercare di capire quale strada imboccare. Nel libro ripercorro i crocevia fondamentali della vita e della carriera di Eric, ma non in senso puramente biografico: mi interessava soprattutto mettere in risalto come lui li abbia affrontati alla luce (e a volte all’oscuro) di quel sapere dell’anima che lo abita e che ha portato nella sua arte. Per questo ad ogni capitolo è associata una particolare “vibrazione”, per esprimere proprio questa vitalità, questo sentire che l’anima avverte come decisivo per poter scegliere, per scoprire in fondo la propria identità e autenticità. È un aspetto che sento mio e che può certamente interessare anche chi non è fan di “Slowhand”, ma può rispecchiarsi in alcuni dei suoi crocevia...