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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
25/03/2020
Daniele Faraotti
La magia sonora di una regola in frantumi
“Alla musica ho sempre chiesto di stupirmi. Le regole possono dare come risultato musiche bellissime ma le devi sempre forzare un po’…” (Daniele Faraotti)

Ho sempre pensato che la didattica e le regole imposte dal comun pensare fossero sempre dei limiti accessibili a tutti… ma pur sempre limiti. La rivoluzione infrange i limiti, inonda terreni sconosciuti e alla fine, ad equilibrio raggiunto, edifica nuove regole per codificare il nuovo conosciuto. L’inizio e la fine sono momenti di stasi, di ferma, di sosta o di fermata. Il transito, la rottura, l’invasione oltre-confini è movimento, è divenire… è arte.

Un disco acido e aphasico come “English Aphasia” non è fatto per l’ascolto quotidiano, per le etichette, per il comun pensare ai confini conosciuti o prevedibili segnati dalle regole e dalle abitudini. “English Aphasia” è una scrittura che distrugge ed oltrepassa e poi alla fine anche se ne fotte di guardarsi indietro per veder che solco ha lasciato sulla terra. Poco importa se qualcuno è lì ad inseguirlo. Poco importa se qualcuno sarà altrove ad aspettarlo.

Daniele Faraotti che come chitarrista è stato spesso dentro le regole del pop e della canzone d’autore (Claudio Lolli tanto per far dei nomi impegnativi, altro distruttore di regole teoriche), scrive di suo pugno un lavoro acido e visionario - aphasico è doveroso dire - dove non solo il suono compone l’immagine, ma anche e soprattutto la parola serve a questo scopo. Non ha liriche e non ha parole “English Aphasia”, ma soltanto suoni parlati o creduti tali. Usa il grammelot, fa il verso all’inglese come quando si fanno i versi per buttar su delle demo melodiche in pre-produzione. E a parte qualche raro caso, “English Aphasia” è un disco di grammelot.

“Si è sempre figli di qualcuno… siamo e saremo figli”. Verissimo. E dentro questi inediti ci troviamo Bowie, Eno, Gabriel, Byrne, Beck, Beatles e tantissima allegra compagnia di chi ha sempre frantumato le regole per invadere un campo poco conosciuto. Ci troviamo l’istinto acido degli anni ’60, il rock sprovveduto degli anni ’70, l’emancipazione psichedelica del punk e gli orizzonti distopici di elettroniche primitive. Siamo noi altri che alla fine, per far bella la nostra ignoranza, abbiamo creduto bene di dominare il nuovo edificando regole… dannato bisogno di avere regole.

Quella che ci aspetta è una conversazione che non ha regole. Lo sapevo. Lo pretendevo. Lo cercavo. Pagherei per veder la faccia di Massimiliano Manocchia o di Nicola Chinellato nel leggerla. La verità è che l’assurdo di questo disco è la semplicità che l’uomo ha di essere libero.

Ho ascoltato molto e spesso il tuo disco. Lo sai, non devo dirtelo per fare scena. La prima parola che vorrei sottolineare è libertà. La prendo in prestito a diversi commenti giunti sul tuo conto. Ne ho parlato anche io in una passata recensione. Libertà significa anarchia, significa regole… ma potrebbe anche significare violazione delle regole… dimmi la tua…

Alla musica ho sempre chiesto di stupirmi. Di ogni epoca, di ogni stile… la musica doveva stupirmi altrimenti per me non significava nulla. Le regole possono dare come risultato  musiche  bellissime ma le devi sempre forzare un po’. Le regole ci sono - sono lì - sono lì per essere variate, cambiate, re-inventate, rispettate nel minimo dettaglio - poi si butta tutto all'aria e di quella musica scritta con regola e maniera si finisce per salvare solo un frammento - così una coda potrebbe diventare un esordio, ogni cosa potrebbe diventare il suo contrario. Ultimamente le melodie mi vengono sempre più in modo spontaneo - il mio nuovo lavoro sarà molto più pop dei precedenti. Canzoni più tradizionali ma inevitabilmente diverse. “I’m the Walrus” apriva una strada -  “The Inner Light” ne apriva un'altra - anche “We Love You” (Rolling Stones) - anche “Tomorrow Never Knows”  anche  “Getting Better” (sembro il Veltroni di Crozza); chissà quante potrei citarne ancora. Anche “Pyramid Song”. Anche tutto KID A.

Ti ho fatto questa domanda perché questo disco le regole le rispetta ma le vìola anche… spesso direi. Non ho mai saputo bene dove posizionarmi, se nel lato di chi condanna la violazione o di chi ne resta affascinato. Tu cosa senti di aver raggiunto per davvero? Un equilibrio o un vero stato di rivoluzione?

Non ho raggiunto niente - “English Aphasia” fotografa un periodo - dal 2014 al 2018 - 4 anni davvero difficili per me… e oltre a problemi di vario genere, molta insofferenza, insofferenza anche verso me stesso. “English Aphasia”, la title-track, mi dimostra che si può scrivere una canzone che si articoli come un flusso di coscienza melodico. L'afasia non  riguarda solo l'inglese. Nella fase iniziale del processo creativo, quando le cose affiorano, è tutto afasico - una musica ancora indefinita,  appena accennata, oggi possiamo catturarla - catturarla attraverso la registrazione - possiamo cogliere cose che altrimenti andrebbero perse. Né uno stato di equilibrio né di rivoluzione - semplicemente un percorso.

Lasciami citare i Beatles. Devo citarli. E non solo perché sei tu a farlo in tanti momenti del disco. Ma perché sono io a sentirli anche dentro il sitar di "JONI, GEORGE, IGOR AND ME”. E non penso che la tua sia una citazione soltanto musicale. E con loro devo citare anche Bowie, David Byrne o Brian Eno… io penso che tu stia citando quel certo modo di essere liberi, quel certo tempo, quel certo modo di fare… o sbaglio?

No non sbagli affatto. Siamo contemporanei a noi stessi - i musicisti che citi sono miei “amici” - amici a cui voglio bene. Beh certo il sitar è quello di George Harrison, il George del titolo.

Però l'accettazione di un certo modo di fare passa inevitabilmente per un pubblico capace di codificarlo. Oggi temo siano etichettabili solamente come degli scellerati, visionari senza senso. Io penso che il 90% di noi osanna Bowie e compagnia bella, lo fa per coccolare una moda pubblicamente irreprensibile ma che di quel mondo sa e conosce ben poco. Non so come la vedi tu in merito, ma io temo che un disco come “English Aphasia” sia preso come opera folle in senso negativo. Tu cosa ne pensi e come la vivi?

Certamente, è così. Io non posso farci niente. Adoro i complimenti e talvolta mi capita di  trovarne di belli anche nelle critiche. Che ti devo dire? I miei alunni mi fanno sentire una canzone che titola "Carote" - e dico: ma che schifezza è ragazzi? E loro di rimando: “Prof, a noi piace molto - e poi la Maionchi gli ha dato il massimo dei voti a X Factor”. Ecco, mi pare di aver risposto. Comunque  credo  che a parità di opportunità (tv, radio, concerti etc. etc.), lo scellerato troverebbe i suoi visionari. Quando hai una azienda a disposizione come Celentano, Mina e Al Bano è più facile. Un giovane George Gershwin ha finalmente l'occasione di incontrare il suo eroe - l'eroe molto ammirato da Gershwin era Alban Berg. Il giovane George visibilmente emozionato, si appresta a suonare quando Berg si accorge del suo imbarazzo - dopo essersi avvicinato al giovane Gershwin, Berg gli sussurra all'orecchio: "su coraggio amico mio, la musica è musica ".

Ti invito a fare una prova: lancia “Zawie III” o “Between for a Day Trust” e di’ loro che stai omaggiando Bowie oppure i Talking Heads. Secondo te la gente che risponde?

Il mercato ha annate buone e annate cattive. Certo che qualcosa si è spento - il beat durò il tempo di una stagione - il periodo psichedelico 2 anni, il prog 4/5 anni. Oggi le canzoni si articolano sempre allo stesso modo, si riciclano all'infinito se ci fai caso. Ma sono solo le mie orecchie? Che dire, l'altro è pur sempre ipotetico.

Parlami della voce. Spesso fuori tono. Volutamente e precisamente fuori tono. Perché? E come rispondi a chi invece di fuori tono usa dire stonata?

Come ti dicevo: l’orecchio fa esperienza  - il Sacre (“Sacre du printemps”) ha passato i cent'anni  - non credo che Thom Yorke si stupirebbe delle mie parti vocali.

Parola. Ecco un’altra parola importante. “English Aphasia” non ha parole. Quasi ovunque. O meglio: le ha ma sono soltanto suoni, sono grammelot, sono giochi. Beh niente di rivoluzionario certamente ma non posso pensare che dietro ci sia solo un esercizio, un gusto estetico. Dimmi la tua: perché parole senza senso?

La musica mi viene facile, le parole no - o meglio, le sto ancora cercando. Il mio inglese afasico è il vecchio sogno di cantare nella lingua dei miei eroi. Faccio progressi anche con l'italiano - il prossimo album sarà tutto in italiano… o meglio, spero di trovare il testo giusto per tutte le canzoni altrimenti glisso sull'inglese.

E torno a fare polemica sociale. Come ti ho detto più volte ho sempre pensato che dietro ci fosse un certo modo di prendersi gioco dei tanti che in fondo non capiscono affatto i testi dei grandi poeti internazionali. So di venir fucilato, ma, ignoranti come siamo, temo che quel fantasioso 90% e più della popolazione che osanna Dylan non capisce mezza riga dei suoi testi. Chissà se l’ha mai letta. E con i tuoi testi? Hai lanciato una sfida al perbenismo morale dei finti cultori di musica internazionale?

Mi piace molto questo punto di vista - forse inconsciamente ho lanciato questa sfida; se ascolti una canzone di cui le parole non significano nulla che cosa ascolti? Ascolti la musica. Devo dirti che questi cantautori pieni di parole e poca musica spesso mi hanno ammorbato. Sono un cultore della musica internazionale - comincio oggi a studiare i testi di “The Lamb Lies Down on Broadway” o di “Lodger”.

Mi incuriosisce davvero questo processo. La parola non ha più senso ma soltanto un suono. Ma i brani nel suo complesso hanno un senso, custodiscono un messaggio o sbaglio? Dunque il suono delle parole lo hai scelto per le sensazioni da legare al messaggio o il tutto, la completezza del tutto, proviene dall’istinto di come son venute fuori le cose?

La parola in “English Aphasia” è  vagheggiata - c'è solo come componente, come elemento di questo piccolo universo che è la canzone. “You know my name”? Ricordi? Per restare sempre in “Pepperland”. Esatto - la completezza del tutto - mi pareva che non ci fosse bisogno d'altro. La musica non significa nulla eppure arriva così in profondità - una profondità senza parole ossia con parole che ognuno di noi tiene per sé. Forse quelle parole riaffiorerebbero in una seduta psicoanalitica sotto ipnosi - riaffiorerebbero in forma afasica appunto - in una lingua sconosciuta - in aramaico - in inglese. Confesso - ho sognato che il mio inglese afasico fosse veramente inglese - ed ho sperato che i testi avessero veramente un significato - anche stupido - una forma e un significato riposti in un angolo di una mia vita passata.

Sul piano compositivo davvero penso ci sia un mondo da scoprire… arrangiamenti come quelli di "LEONORE SPRACHE” o della chiusa "JONI, GEORGE, IGOR AND ME”… davvero parlami di quanto spazio ha avuto il caso e quanto la totale pretesa di non avere filtri… che poi in particolare l’ultima vive di improvvisazioni…

Nella parte di tastiera di “Leonora Sprache” (quella specie di mantra da Croce Rossa) ho visto qualcosa - cosa non saprei. Ho cominciato a lavorarci - così, al buio - quella musica andava proiettando cose - possibilità. Sì, anche il caso fa la sua parte. Talvolta sento il peso del lavoro, ho bisogno di distrarmi, anche mentre lavoro. Mi capita di vedere (rivedere) film. Mentre lavoravo a “Leonora Sprache” rivedevo “Il Sorpasso” di Risi - in quei giorni in macchina ascoltavo “Leonore” di Beethoven (la prima versione di Fidelio). Adoro il tedesco sussurrato - che suono, che profondità - il tutto senza capirci una mazza naturalmente. Sia nel “Il Sorpasso” che in “Leonore” ho trovato oggetti/suoni che ho poi utilizzato nella stesura del brano. Quando pareva che gli elementi ci fossero tutti, è arrivato un regalo: la melodia che affiora nel finale… e ti dico che di quelle quattro note sono particolarmente soddisfatto. Esatto, “JONI” è un flusso di coscienza - prima il flusso della parte strumentale e poi di quella vocale. Le parti sono state pulite da qualche fake note - la parte vocale frammentata nelle parti più significative. La parte vocale di “Joni” non è stata ri-registrata - è rimasta quella - quella del primo appunto - ho solamente scelto le take migliori. Sì, insomma alla Jimmy Page: tre/quattro soli sovrapposti per poi scegliere i frammenti giusti e ricomporre  "il solo".

Pop Art. Altra parola importante. Voglio chiudere così: secondo me questo è un disco figlio della Pop Art. A te la palla...

Non saprei - la pop art è tante cose; è Andy ma anche Rauschenberg. “Leonora Sprache” un pò Rauschenberghiana?

Si è sempre figli di qualcuno… siamo e saremo figli.


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