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REVIEWSLE RECENSIONI
01/03/2023
ciulla
L’arte di star bene
C’è l’arte di star bene e c’è quella di scrivere canzoni, e non è detto che tra le due non ci sia un legame. Ciulla con il suo secondo disco riflette su concetti complessi come benessere e felicità e, grazie al suo talento, permette di ricordare che l’arte di scrivere canzoni non ha bisogno per forza di grandi nomi, ma si cela anche dietro quello oscuro e sconosciuto di Antonio Ciulla.

C’è l’arte di star bene e c’è quella di scrivere canzoni, e non è detto che tra le due non ci sia un legame. Nel momento in cui Antonio Ciulla taglia il traguardo del secondo disco e si trova a riflettere su concetti complessi come benessere e felicità, probabilmente questa sua capacità di fare musica, questo talento che si porta dietro fin dai tempi dei Violacida (ve li ricordate? Erano una delle band messe sotto contratto da Maciste Dischi prima della svolta Gazzelle), potrebbe aiutare a rispondere alla famosa domanda con cui tutti noi, prima o poi, ci troviamo a dover fare i conti: esiste davvero la felicità? E soprattutto: è in nostro potere fare qualcosa per raggiungerla?

Il nuovo disco s’intitola, guarda caso, L’arte di star bene, e contiene un “Intermezzo” che, in modalità piuttosto improbabile, è collocato in realtà in fondo alla tracklist, appena prima dei due brani conclusivi. Si tratta sostanzialmente di una lettera che Antonio ha scritto a se stesso e che viene letta dalla voce della madre (che lo chiama affettuosamente “topo”, come faceva quando era piccolo): “Complimenti – recita il testo - stavolta ti sei veramente rivolto a te stesso. Ti sei guardato allo specchio senza darti del tu e hai iniziato a capirci qualcosa. Ricorda però che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che è vero. Non ti lamentare se nessuno ti rivolge la parola o se nessuno ti prende sul serio. Goditi questo nuovo fallimento e vantatene. Vedrai che, una volta esaurito, vorrai subito provarne un altro. Resta così, deluso ma felice, felice ma mai appagato. L'arte di star bene non è un'utopia ma una ricerca e una rivoluzione permanente dentro noi stessi, fuori dalla pelle.”

 

Che realizzare un disco rappresenti un fallimento è nozione piuttosto ovvia, in uno scenario musicale sempre più inflazionato dove anche i nomi più grossi non possono più dare per scontato nulla. E allora “stare bene”, in questo contesto, significa proprio questo: scrivere e pubblicare le proprie canzoni semplicemente perché si ha voglia di farlo, fregandosene dell’esito e delle logiche di visibilità.

Ma dicevamo anche dell’arte di scrivere canzoni: Ciulla, da questo punto di vista, ha messo in mostra un talento prodigioso. Che fosse un autore interessante, uno di quelli da tenere d’occhio in futuro, era già risultato chiaro dal suo disco d’esordio, Canzoni dell’appartamento. A tre anni di distanza, però, il salto qualitativo è sorprendente e denota un processo di crescita e maturazione decisamente fuori dal comune. Che disco ha fatto Ciulla? Ha fatto un disco da cantautore vero, che mette insieme musica e parole dando a ciascun elemento la stessa importanza e facendole interagire all’interno di un’unità perfetta; un disco che ha una visione della realtà ben precisa, che riflette sulla vita senza apparire verboso, che ha un approccio alla melodia proprio di chi la tratta come una cosa seria, quasi sacra, ma che allo stesso tempo non rinnega una certa leggerezza tipica del Pop.

 

C’è ancora qualcuno che in Italia sa scrivere canzoni così, senza tempo perché appartenenti a quella dimensione universale che solo la bellezza vera possiede? Non sono in molti, bisogna dirlo, anche perché un certo tipo di scrittura non è più di moda, la strada dell’affermazione commerciale passa da altri luoghi, da altri mezzi, da una semplicità che spesso e volentieri ottiene il risultato sperato trascurando la dimensione della profondità.

Ecco, Ciulla è un cantautore vero e ha fatto un disco che, venga o meno ascoltato da parecchie persone, rimane in grado di guardare a testa alta tutti quei mostri sacri che vengono evocati ogni giorno come termine di paragone irraggiungibile per giudicare chiunque.

 

È un disco, attenzione, che non guarda al passato, ma che gode di una produzione sufficientemente moderna (ottimo il lavoro di Federico Carillo in questa sede) pur senza ricorrere a tutto quell’abbellimento elettronico che oggi sembra essere più che mai obbligato all’interno di qualunque genere. I suoni digitali sono ridotti allo stretto necessario, il grosso è fatto alla vecchia maniera, con la chitarra acustica, il pianoforte (che si alternano sui vari brani nel ruolo di strumenti dominanti) ed una sezione ritmica particolarmente scarnificata.

Ogni canzone fa storia a sé, ma insieme sono parte di un itinerario di ricerca che prende atto delle difficoltà della vita, della perenne dialettica tra piacere e dovere, tra rilassatezza e responsabilità, per approdare ad una dimensione adulta di sé, dove esiste la possibilità che la felicità possa essere trovata, ma allo stesso tempo non ci si illude che si possa ottenere senza un lavoro di consapevolezza sul proprio io e sul mondo che ci circonda.

 

È un viaggio che si dipana in dieci tappe (intermezzo compreso) per poco più di mezz’ora di musica, dalla straordinaria eleganza della title track, un brano che farebbe invidia anche al miglior Niccolò Fabi, proseguendo poi con “Fantasma”, primo singolo estratto e foriero di un repentino cambio di atmosfera, in questo caso molto più aperta e quasi scanzonata. È un pezzo dal ritornello killer, dove ci si mette in guardia dal pericolo che gli affetti, siano il fare musica o la persona amata, possono inaridirsi, che si può arrivare a vederli come l’ennesima forma di routine, e che dunque ad ogni istante occorra ridirsi i motivi del perché vale la pena fare quel che si fa, stare con le persone con cui si sta.

C’è poi “Il cielo sulle spalle”, ballata pianistica di una dolcezza infinita, che esprime la sensazione paradossale che il cielo, elemento spesso associato ad una dimensione di libertà, possa invece pesare come un qualcosa che provoca ansia. Anche “Povero me” ha un bel gusto Pop, un brano allegro sul vivere in provincia e sul vivere da soli, due dimensioni a cui ci si può stancamente abituare ma che, in modo quasi paradossale, possono anche contribuire alla salvezza. “Ragazzo difficile” è una sorta di ritratto intimo e divertente dell’artista, è suonata al piano e possiede anch’essa una sua innata leggerezza, comprensiva di un altro ritornello che sarà facile cantare.

C’è un piano elettrico in “L’amore è inutile” ed è anche la canzone più prodotta dell’intero disco. Amore vero o amore tossico? È una domanda che l’io narrante fa all’amata, in un brano dove ritorna in primo piano la componente drammatica, e l’impressione è che la risposta non sia così semplice da trovare.

Bellissima anche “Verrà altro tempo per noi”, costruita sulla chitarra acustica, fortemente debitrice dei grandi esponenti della cosiddetta “scuola romana”, soprattutto Niccolò Fabi e Riccardo Sinigallia.

Dopo l’intermezzo ci sono solo altri due brani: “Viaggi in Sud America”, briosa e solare, l’unica, oltre a “Fantasma”, in cui salgono leggermente i bpm, e “Distante”, sorta di dolce serenata notturna, ideale per chiudere il disco. E alla fine, quasi in maniera inaspettata, c’è l’approdo verso un tu. Un tu che rimane indifferente “alle stronzate degli influencer”, “a questo dire tutto e dire niente” che sembra la cifra dell’epoca in cui viviamo, e che rimane presenza sicura di fronte a “questo vuoto di benessere apparente”. Una conclusione rassicurante, forse, dopo tutto questo faticoso meditare.

 

Senza nulla togliere alla recente esibizione di Gino Paoli a Sanremo, non abbiamo bisogno di ascoltare un musicista novantenne per convincerci che c’è ancora della buona musica in giro. Tutti quelli che continuano imperterriti a glorificare un passato che non tornerà più e a metterlo a confronto con un presente di frivolezza e squallore, potrebbero provare a fare qualche sforzo per uscire dal seminato e recuperare un disco come questo. Scopriranno così che l’arte di scrivere canzoni non ha bisogno per forza di grandi nomi ma si cela anche dietro quello oscuro e sconosciuto di Antonio Ciulla.