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L'assassinio del commendatore. Libro primo - Idee che affiorano
Haruki Murakami
2018  (Einaudi)
REFLECTIONS
all THE BOOKSTORE
23/01/2019
Haruki Murakami
L'assassinio del commendatore. Libro primo - Idee che affiorano
Tanti fili scoperti, attendono di essere ricollocati e coperti. Tante emozioni chiedono di essere placate o quantomeno di arrivare a una destinazione, ma il cammino è lungo e la ricerca interiore, come recita uno degli eserghi iniziali, spesso è una guerra sanguinosa.

“Ciò che è fuori di te è una proiezione di ciò che è dentro di te,

e ciò che è dentro di te è una proiezione del mondo esterno.

Perciò spesso, quando to addentri nel labirinto che sta fuori di

te, finisci col penetrare anche nel tuo labirinto interiore.

E in molti casi è un’esperienza pericolosa”.

(Haruki Murakami - Kafka sulla spiaggia)

 

“La maggior parte della gente pensa che il percorso spirituale sia

qualcosa di pacifico, una cosa dolce, e che esso divenga sempre

più pacifico e tranquillo, invece il percorso spirituale è

una guerra sanguinosa”.

(Commentario alla prima sezione del Mahbharata)

 

Olio su tela.

Al di là di come si presenti ai nostri occhi, un’immagine resta sempre un mistero. Perché è una rappresentazione, quella che stiamo guardando[1]. Prende spunto da quest’assunto l’ultima fatica di Haruki Murakami, scrittore giapponese che nell’arco della sua produzione è riuscito a creare uno stile e un mondo in cui i confini tra sogno e realtà sono molto labili[2]. Ad un certo punto del suo ultimo libro mette in bocca a uno dei personaggi quello che potremmo considerare come il suo manifesto poetico:

“Spesso non capiamo bene dove passa il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Pensiamo che la linea di demarcazione tra ciò che esiste e ciò che non esiste sia mobile, come una frontiera che si sposta di sua volontà. A questi spostamenti dobbiamo prestare molta attenzione. Altrimenti non capiamo più da quale parte ci troviamo".

(Haruki Murakami - L'assassinio del commendatore. Libro I. Idee che affiorano).

Dove siamo, quindi?

Questa domanda ricorre come un filo nascosto in larga parte della sua produzione e corrisponde più esattamente al domandarsi quale punto sia stato raggiunto a livello esistenziale[3]. Il nodo cruciale, però, sta nel chiedersi se nei suoi libri lo scrittore giapponese risponda alle domande dei suoi protagonisti o se invece non li conduca in una ricerca senza esiti apparenti. Per iniziare bisogna dire che, come avviene anche per il Cinema, è obbligatorio stringere un patto con l’autore, vale a dire accettare di farsi trasportare in quella zona liminare tra veglia e sonno, tra comprensione degli accadimenti e sospensione dell’incredulità. Nella tana del bianconiglio, verrebbe da dire, tenendo conto che nel libro Murakami accenna all’opera di Lewiss Carroll e che un’altra opera dello scrittore giapponese ha come titolo emblematico: La fine del mondo e il paese delle meraviglie.

Ricordo ancora, in questo senso, il fascino e lo straniamento che provai grazie al primo libro che lessi, After Dark, in cui la storia era, metaforicamente parlando, divisa in due come uno split-screen: una metà dello schermo era invasa dalla visione di una ragazza stesa su un lettino, in un limbo di sonno e costantemente osservata da una telecamera in un’altra stanza. Dorme? Sta sognando? Abbiamo accesso ai suoi pensieri? No.

Perché, allora, nel libro siamo continuamente riportati in questa stanza? A me piace pensare che Murakami voglia giocare con noi lettori per accompagnarci sul limite di una curiosità razionale (e tipicamente occidentale, aggiungerei) per poi farci cadere nella frustrazione di una non-risposta, di una non conclusione.[4]. Come per l’appunto accade per quanto riguarda la ragazza menzionata, stesa mentre dorme.

“Un’altra vampata di calore apparve sullo schermo che monitorava il lavoro della mente di Annie. Mae allungò una mano per toccarle la fronte, meravigliandosi della distanza che questa carne poneva tra loro. Cosa stava succedendo nella sua testa? Non saperlo era davvero esasperante, pensò. Era un affronto, una privazione, per sé stessa e per il mondo.

No. Non è il finale di After Dark.

Siamo in un altro libro, da un’altra parte[5]. Ho provato anch’io a spezzare la logicità e la consequenzialità dei meccanismi con cui la nostra mente si approccia ad un testo. La frase è tratta da un libro che parla di una società dedita al controllo e mi piaceva, all’interno di questo discorso, porre l’accento sulla parola “mondo”. Il mondo come volontà e rappresentazione, per citare l’opera di Arthur Schopenhauer, filosofo con lo sguardo rivolto a oriente e alle dottrine induiste e buddiste, con cui Murakami condivide la riflessione sullo statuto di realtà di ciò che vediamo. Mondo e sua rappresentazione mediati dalla Volontà, per entrare, finalmente, nei meandri del nuovo libro - in realtà diviso in due tomi (lo split-screen); una volontà razionale la cui efficacia nell’indagine e nei risultati viene adombrata da questo passo, molto schopenhaueriano: 

“La verità è una rappresentazione - continuò - e la rappresentazione è verità. La cosa migliore è accettare così com’è la rappresentazione”. (Haruki Murakami - L'assassinio del commendatore. Libro I. Idee che affiorano).

Warning: a pronunciare queste parole nel libro non è un personaggio, ma…un’Idea!

Arrivati a questo punto dovete decidere se continuare, perché sarò costretto a svelare cose importanti e soprattutto chi sia (o cosa rappresenti) quest’idea[6]. Se per caso ho suscitato in voi la voglia di leggere il libro, forse è meglio che interrompiate la lettura.

 

Tra(u)ma.

Un pittore ritrattista, dopo essere stato lasciato dalla moglie senza troppe spiegazioni, intraprende un lungo viaggio, animato dalla volontà di distaccarsi da tutto, per poi riparare in una casa, grazie all’aiuto di un amico che gli mette a disposizione l’abitazione che fu del Maestro Amada Tomohiko. Qui scopre nella soffitta un suo dipinto nascosto e ancora imballato dal titolo: L’assassinio del commendatore. Di notte, il suo sonno è interrotto dal lontano tintinnio di una campanella, che sente provenire dal bosco circostante. Con l’aiuto di un ricco uomo d’affari (che gli ha commissionato il suo ritratto offrendosi come modello e che ha in mente uno strano progetto) scopre che il suono proviene da una stanza circolare nascosta sottoterra. Dopo aver scavato e scoperchiato le assi che la coprivano, dentro, però, non trovano altro che la campanella posata a terra. Non c’è traccia di qualcuno che la suoni. Eppure…

 

La musica.

Uno dei motivi per cui amo Murakami consiste nel suo amore per la musica occidentale, in particolar modo quella classica[7] e per il modo in cui la inserisce nei suoi libri[8]. Nel suo precedente 1q84, l’andamento straniante della SINFONIETTA di Leoš Janácek introduceva da subito il lettore in uno sfasamento temporale dentro a un mondo con due lune. Oppure nella sua penultima pubblicazione L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio riecheggiava, ad accompagnare il doloroso percorso nel passato del protagonista, la struggente musica di Franz Listz e del suo componimento Le mal du pays, prima suite contenuta nell’opera: Années de pélerinage.  L’opera lirica, nello specifico, caratterizza l’ultima fatica dello scrittore: nella casa dell’anziano pittore il protagonista trova una vasta collezione di dischi che ascolta mentre cerca di ritrovare l’ispirazione. “L’assassinio del commendatore” non è solo il titolo di un dipinto: Murakami fa coincidere pittura e musica traslando nella tecnica orientale di disegno Nihonga, la raffigurazione dell’uccisione di un uomo e ricollegandosi alla stessa fine inferta al Commendatore del Don Giovanni di W. A. Mozart.

 

La pittura.

In realtà, il quietismo sia pittorico che contenutistico della tecnica Nihonga viene sporcato dai colori della violenta raffigurazione del duello tra un giovane e un vecchio. Nelle giornate trascorse dal protagonista (non ci viene detto il nome, come spesso capita nei romanzi dello scrittore giapponese) con l’uomo d’affari che gli ha commissionato il ritratto, le conversazioni spaziano dall’arte alla musica, con costanti riferimenti alla lirica, vedi ad esempio l’ascolto del Cavaliere della rosa di Richard Strauss. Ancora un cavaliere, duelli, lance, spade a far sgorgare sangue come nel dipinto del maestro anziano Amada Tomohiko ritrovato in soffitta:

“In quel quadro […] scorreva il sangue. Fiumi di sangue. Due uomini si affrontavano con pesanti spade di foggia antica. In un duello si sarebbe detto. Uno era giovane, l’altro era vecchio. Il primo aveva affondato la spada nel petto del secondo. […] Il rivale doveva avergli trafitto l’aorta, perché dal suo petto il sangue sgorgava abbondante. E macchiava di rosso il suo abito bianco. La sofferenza gli deformava la bocca. Gli occhi erano spalancati e guardavano con tristezza nel vuoto. Capiva di essere stato sconfitto. Ma il vero dolore non era ancora arrivato”.

Una di queste conversazioni riguarda il periodo trascorso a Vienna dall’anziano pittore giapponese e che Menshiki (il ricco committente) colloca grazie a sue ricerche nel periodo dell’Anschluss dell’Austria ad opera dei nazisti. Forse il Maestro partecipò al tentativo di uccisione di un gerarca nazista e per questo (data l’alleanza tra Giappone e Germania) fu espulso e rimandato in patria. Il quadro allude metaforicamente a quest’episodio? Forse, eppure il protagonista sente che le immagini che vede gli stanno dicendo qualcosa mediante un codice che non riesce a decifrare, una verità da far emergere dalla tela. Qual è il nesso tra il dolore di Amada Tomohiko e quello del nostro anonimo protagonista? E chi è questa entità che in una notte appare fisicamente nelle identiche vesti del commendatore del dipinto a presentarsi come un’Idea?[9]

 

Il dolore vero non era ancora arrivato.

Un’idea che esce da un quadro e s’incarna. La sospensione dei normali canoni razionali è portata a un livello per cui anche il pittore devia dal suo solito modo di dipingere per arrivare a ritrarre un uomo (il cui nome, Menshiki, negli ideogrammi giapponesi nasce dall’accostamento delle parole “sfuggire” e “colore”), anzi a non-ritrarre, dato che sulla tela il volto del committente va rintracciato nell’amalgama dei colori e non in una fedele rappresentazione delle sembianze. Ancora idee, suggestioni come quella adombrata nel prologo kafkiano del libro dove un misterioso uomo senza volto commissiona il proprio ritratto al pittore:

“Come potevo dare forma a qualcosa che non esisteva? (…) Che fosse stato un sogno, un breve e fugace sogno? No, sapevo bene che non lo era. Perché in tal caso tutto, tutto sarebbe stato solo un sogno: anche il mondo in cui vivevo”.

Com’è possibile eseguire il ritratto di un uomo senza volto? Ha senso? Eppure capita proprio questo al giovane protagonista, il quale mentre ritrae l’uomo d’affari si sente pervaso da un’urgenza, un nuovo stile; nell’accostamento delle pennellate, il volto non c’è anche se lo stesso committente ammette estasiato che si “vede”. Metafore che si trasformano è, non a caso, il titolo del secondo libro che compone L’Assassinio del commendatore, quasi a prefigurare lo scioglimento dei nodi narrativi. Forse ci sarà svelato l’enigma celato nel dipinto, forse sapremo cosa ci facesse una campanella sepolta in una cripta circolare e soprattutto chi fosse a suonarla[10]. E chi è quella ragazza incontrata nelle settimane di viaggio iniziale con cui ha trascorso una notte per poi vederla sparire, inseguita (forse) da un uomo del quale ha sentito, in seguito, il bisogno di dipingere il volto? Un uomo che incontrato di persona, lo fissa in silenzio in un ristorante e con gli occhi gli trasmette questa frase:

“So chi sei e so cosa hai fatto”.

Tanti fili scoperti, attendono di essere ricollocati e coperti. Tante emozioni chiedono di essere placate o quantomeno di arrivare a una destinazione, ma il cammino è lungo e la ricerca interiore, come recita uno degli eserghi iniziali, spesso è una guerra sanguinosa.

"L’artista è un ricettacolo di emozioni che vengono da ogni luogo: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una forma di passaggio, da una tela di ragno" (Pablo Picasso).

“Il tempo sembra passare. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un ragno attaccato alla ragnatela. C’è una luce nitida, un senso di cose delineate con precisione, strisce di lucentezza liquida sulla baia. In una giornata chiara e luminosa dopo un temporale, quando la più piccola delle foglie cadute è trafitta di consapevolezza, tu sai con maggiore sicurezza chi sei. Nel rumore del vento tra i pini, il mondo viene alla luce, in modo irreversibile, e il ragno resta attaccato alla regnatela agitata dal vento”.

(Don De Lillo - Body Art)

 

Breaking the canvas

Mentre leggevo mi sforzavo di immaginare il processo pittorico del protagonista e soprattutto il risultato finale, affascinato dalla visione di strati su strati di colore da cui si potesse intuire, ricavare la presenza di un volto. E immediatamente mi è apparsa l’immagine della copertina di un disco che adoro, realizzato da un gruppo che si chiama Japan e che come titolo ha le stesse parole che ho usato per il titolo di questo pezzo: OIL ON CANVAS.

Guardate il disegno nel link sottostante, chiudete gli occhi e poi riapriteli: intravedete il volto che merge dai colori? Si tratta delle sembianze del frontman del gruppo, David Sylvian, artista notoriamente legato all’ Oriente e al Buddismo.

“Siamo come il ragno. Tessiamo la nostra vita e poi ci muoviamo insieme in essa. Siamo come il sognatore che sogna e poi vive nel sogno. Questo è vero per l’intero universo”

(frase tratta dalla Brhadaranyaka Upanisad, e citata da David Lynch alla presentazione del suo INLAND EMPIRE)

 

Mi fermo anch’io ad osservare il ragno, mentre il tempo passa e mi confondo nella tela dell’Universo.

Buoni sogni, buone visioni.

 

[1] Non scomodiamo troppo René Magritte anche se è stato lui a smuovere le acque con la sua famosa pipa.

[2] Qualcosa di analogo alla poetica di David Lynch, con il quale lo scrittore ha molto in comune.

[3] Emblematico in questo senso il finale aperto di Norvegian wood in cui alla domanda - “dove sei?” - il protagonista pensa tra sé e sé: “Già, dov’ero? Quello che vedevo intorno a me era solo una folla di gente che mi passava accanto diretta chissà dove. Da quel luogo che non era da nessuna parte rimasi in linea con Midori”.

[4] Pare di sentire l’eco delle affermazioni di David Lynch - rilasciate all’indomani della presentazione al Festival del Cinema di Cannes dei primi due episodi della terza serie (chiamiamola imprecisamente così) di Twin Peaks che cito a senso: “Potete metterci dentro quello che vi pare o vedervi altrettanto. Io non vi risponderò”.

[5] Dave Eggers, il cerchio - 2014

[6] Mi ispiro, volutamente, alla prima pagina di Soffocare, di Chuck Palhaniuk in cui avverte il lettore che forse sia meglio che non giri la pagina. Potrebbe farsi del male.

[7] Vale la pena ricordare che uno dei suoi romanzi più noti e molto lontani dal consueto ambiente onirico tratteggiato nei suoi libri sia il già menzionato Norvegian Wood, in omaggio alla canzone dei The Beatles.

[8] Nel sito www.haruki.music.com potete trovare tutti i riferimenti musicali presenti nelle sue opere, così come diverse playlist su Spotify.

[9] Per i detrattori dello scrittore giapponese, bisogna dire che qui Murakami provoca chi non apprezza le sue tematiche, prefigurando addirittura materializzazioni di idee platoniche.

[10] La profondità, il pozzo in senso fisico ma anche metaforicamente ricorre spesso nei suoi libri. Del resto, proprio lui nel tratteggiare il lavoro solitario dello scrittore (vedi il Mestiere dello scrittore) afferma di sentirsi come seduto in fondo a un pozzo.