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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
15/12/2025
Buckwheat Zydeco
Lay Your Burden Down
La miscela black incandescente di Buckwheat Zydeco è allegra e trascinante. Lay Your Burden Down merita un ri-ascolto e offre un sorprendente numero di illustri special guest.

Il 1976 funge da vero spartiacque per Stanley Dural Jr., classe 1947: per la prima volta torna alle sue origini musicali, facendo qualcosa che aveva evitato per tutta la sua carriera artistica. Il pianista r&b ed ex leader dell’ensemble funk ‘n’ soul Buckwheat and the Hitchhikers, inizia infatti a suonare lo zydeco, prima all'organo e poi alla fisarmonica. Come poteva rifiutare l'offerta di unirsi alla band dell'indiscusso re del genere, il fisarmonicista Clifton Chenier?

La loro partnership dura il biennio successivo e riporta Dural alle radici, a quel periodo quando, da giovincello, con i suoi capelli intrecciati, aveva ricevuto il suo particolare soprannome per la somiglianza con Buckwheat, uno dei protagonisti, a cavallo degli anni Trenta e Quaranta, della serie di film a episodi Our Gang/The Little Rascals.

«Sono rimasto davvero colpito dalla collaborazione con Chenier, prima era come se stessi fuggendo dalle mie origini vergognandomi di suonare la fisarmonica, di parlare francese... Sono solo felice di essermi svegliato». (Estratto da intervista con il giornalista Don Snowden, Los Angeles Times, 1988)

 

Crescere a Lafayette, in Louisiana, durante gli anni Cinquanta, quando parlare il francese cajun era vietato nelle scuole e la musica creola tradizionale, come la fisarmonica e il washboard tanto amati da suo padre, veniva suonata solo a casa o durante le riunioni di famiglia, non deve essere stato facile. Stanley, da ragazzo, ha subito nutrito la consapevolezza dello stigma associato alla sua eredità cajun, e proprio al mentore Clifton Chenier va il merito di aver aperto la strada, rompendo gli schemi, affossando i preconcetti e la diffidenza a colpi di accordion.

Così, sul finire degli anni Settanta, Dural si sente finalmente pronto a proseguire la tradizione e a trasformarsi nell’amato Buckwheat Zydeco, divenuto anche l’appellativo della formazione di cui è stato leader, voce, cuore e volto.

 

E ora voliamo al 2009: per brindare al trentennale dell’attività a nome Buckwheat Zydeco arriva Lay Your Burden Down, un disco in cui il Nostro, insieme ai suoi fidati Sir Reginald Master Dural (rubboard), Michael Melchione e Olivier Scoazec (chitarre), Curtis Watson (tromba), Lee Allen Zeno (basso) e Kevin Menard (batteria), ha voluto fare le cose al meglio. L’album viene registrato nel quartiere generale dei Dockside Studios, a Maurice, Louisiana, sotto la regia di Steve Berlin, storico membro dei Los Lobos, che firma la produzione e lascia la sua indelebile impronta suonando il sax baritono, strumento del quale è maestro, nelle undici canzoni della raccolta.

A rinforzare la compagine provvedono amici e colleghi di chiara fama (come non citare l’istrionico Trombone Shorty?), con un paio di chitarristi su tutti, Warren Haynes nel brano che dà il titolo, di sua composizione, e Sonny Landreth, nelle prime due tracce, a cominciare da “When the Levee Breaks”, anche e soprattutto nel repertorio Led Zeppelin, per arrivare alla vivace “The Wrong Side”, dal variopinto songbook di JJ Grey (ospite ai cori e al Wurlitzer) & Mofro.

La tavolozza dei colori è più varia che in passato, con Let Your Yeah Be Yeah”, una vivace reinterpretazione di un classico di Jimmy Cliff, e addirittura un pezzo di Bruce Springsteen, “Back in Your Arms”, per niente scontato e forse tra i più arditi e sorprendenti, a conquistare cadenze e riverberi che occhieggiano al reggae. Lascia altrettanto a bocca aperta il ricordo di Captain Beefheart, con l’azzeccata cover di “Too Much Time”.

 

Buckwheat Zydeco canta, suona organo e fisarmonica da par suo: con il suo gruppo abbraccia e illustra, grazie a un suono ampio e carico di pathos, un pezzo della cultura del sud. Sotto questo profilo risulta decisivo l’approccio di Berlin, già in cabina di regia per l’imprescindibile Five Card Stud del 1994. Le autografe “Don’t Leave Me”, “Throw Me Something, Mister”, “Time Goes By” e “Ninth Place” sono quanto di meglio si possa chiedere dal punto di vista di originalità e contaminazione: solo menti aperte possono essere in grado di innestare il country blues e il primo r&b sul suono tradizionale della Louisiana rurale sud-occidentale, incrociandole con soul grintoso, reggae, jazz e funk-rock ad alta energia e ottenere risultati straordinari.

L’effetto migliore lo si riscontra al termine dei quarantotto minuti dell’album, dopo quel piccolo capolavoro conclusivo intitolato propriamente “Finding My Way Back Home”, quando è venuta una gran voglia di ascoltare Buckwheat (scomparso nel 2016 per un maledetto cancro ai polmoni) e la sua band in tutte le declinazioni possibili, e si vive con tristezza il rimpianto di non averlo mai potuto vedere dal vivo…