Ebbene sì, sono passati esattamente cinquanta anni dalla pubblicazione di questo sempreverde… Quale è il segreto della sua eterna giovinezza? Le chitarre graffianti di Eric Clapton e Duane Allman? L’empatia che si crea quando si parla di pene d’amore o semplicemente una manciata di canzoni memorabili?
Senza dubbio tali fattori hanno influito. Pare evidente, però, che ci sia qualcos’altro analizzando questa carrellata di pezzi autografi (concepiti ed accorpati ad alcune cover sempre in tema) colmi di dolore per un sentimento non corrisposto.
In modo tangibile si insinuano anche la passione per la letteratura capace di aprire mondi paralleli e una grande amicizia fra i membri della band che hanno consentito all’opera di spiccare il volo, grazie ad un’arguta condivisione.
È incredibile come a volte le cose possano filare per il verso giusto: Agosto/Settembre 1970, Clapton sta registrando insieme a Tom Dowd nei mitici “Criteria Studios” di Miami le canzoni che confluiranno nell’album. Il suo compare Bobby Whitlock ha composto insieme a lui la maggior parte di esse e lo accompagna pure al canto. Carl Radle, un eclettico musicista in grado anche di arrangiare e proporre mirabolanti idee sonore, li segue fedelmente e ricama preziose linee di basso. Invece Jim Gordon, che, a detta dello stesso Clapton, “probabilmente è il miglior batterista rock che sia mai esistito” (pag. 123 della sua autobiografia, affermazione un po’ scioccante per chi ha lavorato con Ginger Baker, Jamie Oldaker, Steve Ferrone, Steve Gadd, Steve Jordan, ma sicuramente Gordon era il più potente e versatile proprio per quel genere) abbina tecnica a duttilità, lasciando un’impronta unica nel ritmo percussivo.
Qualcosa, però, si è inceppato… Eric ha messo tutto se stesso in quelle tracce, adesso che deve dar loro vita si accorge che manca qualcosa, vuole che tutti i pezzi incendino il cuore della sua amata e per farlo devono essere superlativi, far venire la pelle d’oca. Fortunatamente il puzzle emotivo si ricompone grazie ad una serie di coincidenze che portano la Allman Brothers Band a jammare un’intera notte con loro, i Derek and the Dominos. Subito Duane Allman si innamora del progetto e diventa parte integrante della band levigando ogni asperità con la sua Gibson e donando quel feeling che ancora oggi rende questa opera universale.
La sua presenza mancherà solo nei primi tre pezzi: la melodica “I Looked Away”, la convincente ballata ”Bell Bottom Blues”, arricchita da un breve, ma intrigante assolo e “Keep On Growing”, leggendaria sfuriata rock. Poi, proprio nel momento del bisogno, comparirà lui, il “fromboliere” della slide, che finalizzerà le undici tracce restanti.
Il classico di Bessie Smith “Nobody Knows When You’re Down and Out” diventa epocale mentre i due si alternano ai solo e “I Am Yours” è sorprendente grazie anche alle sue cadenze orientaleggianti. Questa gemma meno conosciuta prevede Clapton concentrato su voce e accompagnamento acustico, Jim Gordon sagace alle percussioni e Duane a donare magia con il suo strumento che emette note delicate. Il testo è volutamente tradotto dalle parole del poeta persiano Nizami, che infatti compare tra gli autori: qui troviamo un’altra importante chiave di lettura del disco. L’artista inglese è rimasto infatuato dall’opera (concepita nel 1188!) “Layla e Majnun”. Si riconosce ed immedesima in Majnun, innamorato pazzo di Layla, alla quale dedica vita e poesie, disperato per lontananza e separazione. E analizzando le liriche, sarà centrale questo tema.
“C’è una sorta di risonanza intima, di corrente e dialogo sotterranei da queste opere così lontane, ma rese vicine da una comunanza di destino. In qualche modo è come se Eric, con la fondamentale collaborazione dei Dominos e di Duane, avesse tradotto i messaggi che voleva inviare nel linguaggio a lui più congeniale, quello del rock blues…” così dice Alberto Rezzi nel suo recente, brillante “Clapton e Layla”, Arcana Edizioni.
Niente di più vero.
Il celebre chitarrista si rifugia in uno pseudonimo, “Derek”, e così farà per Patty Boyd (sì, proprio lei, la moglie del suo migliore amico, George Harrison), la sua “Layla”, per comunicare in modo assolutamente esplicito un amore non corrisposto. E per la verità, nella situazione reale tale sentimento è ancora più lacerante perché l’amata, pur invaghita, si era un istante concessa per poi scomparire, lasciandolo nella più totale disperazione.
Infatti nella suadente “Anyday”, magistralmente indirizzati dalla prepotenza della Gibson di Allman e piacevolmente completata da piccoli gorgheggi anch’essi di slide da parte di Clapton, ci imbattiamo in parole che ricordano il bel momento vissuto, ma mostrano desolazione ed invocano senza speranza un ricongiungimento futuro…
“You were talking and I thought I heard you say
Please, leave me alone
Nothing in this world can make me stay
I'd rather go back, I'd rather go back home
But if you believed in me
Like I believe in you
We could have a love so true
We would go on endlessly”
Siamo solo al secondo LP in cui il musicista si cimenta al canto, la voce non è ancora al top come lo sarà negli anni successivi, risulta un poco acerba, tuttavia tocca i picchi dell’espressività, in quanto graffiante e sofferta.
E, dopo una lunga ed inebriante cover del classico blues “Key To The Highway”, arriva una battagliera “Tell The Truth”, prima di imbatterci in un altro piccolo capolavoro dell’opera.
Anticipata dall’urlo liberatorio “Yeah Yeah Yeah” ecco “Why Does Love Got To Be So Sad” che già dal titolo non fa che ricordare l’argomento del disco che, a tutti gli effetti, potrebbe essere classificato come “Concept Album”.
Le chitarre si dimenano senza fine nel pezzo più tosto e carico di groove presente nella raccolta e nuovamente le liriche sono senza sottintesi. “Perché l’amore deve essere così triste?” urlano a squarciagola e la spiegazione arriva subito dopo in una lancinante versione di “Have You Ever Loved A Woman”… “Perché sai che per tutto il tempo (Lei, Layla, Patty) appartiene al tuo migliore amico…”
Freddie King rese propria questa blues song scritta da Billy Myles, ma da qui in poi la versione dei Derek and the Dominos diventerà uno standard per tutti i chitarristi adoranti le dodici battute. Ancora una volta a fare la differenza è l’approccio dei musicisti che assecondano il talento e le idee di Clapton… e ancora una volta Allman modifica ogni percezione emotiva elevando il pezzo al massimo livello con il suo contributo. Eric, così, riesce a dare il meglio di sé negli assolo. La mitica “Brownie” veleggia e acuisce il grido di dolore per una passione “bastarda”, vista la situazione inequivocabilmente imbarazzante, che non potrà mai essere domata.
“Little Wing”, prezioso tributo ad Hendrix getta ancora benzina sul fuoco. Duane è altisonante e domina la struttura della canzone, il cui arrangiamento è notevolmente diverso dall’originale di Jimi. Non ne viene stravolta l’essenza ed è ammirevole l’originalità, questi sono gli ingredienti per rendere una cover degna di vivere una vita propria (e questo è il caso). Eric e Bobby ci mettono l’anima, strabordanti al microfono con Gordon pazzesco dietro ai piatti.
“It’s Too Late” di Chuck Willis è forse la più debole presente nel doppio LP e calma le acque prima del fiammante epilogo. Le sue cadenze country troveranno agio e gloria in una delle rare apparizioni filmate della Band al “Johnny Cash TV Show”.
Arriviamo così a “Layla”, probabilmente il pezzo che ancora oggi più caratterizza Clapton. L’ha suonata migliaia di volte da allora, mai una versione uguale all’altra, ne ha stravolto l’arrangiamento trasformandola in uno shuffle ,persino in un classico jazz, ne ha eliminato la piano coda, ma è sempre rimasta tale: una delle più belle canzoni d’amore mai composte, tenace, cruda, dura, indimenticabile.
Dal potente riff iniziale al cinguettio finale (creato dal bottleneck di Allman) viviamo 7 minuti e 5 secondi di apoteosi in un susseguirsi di chitarre graffianti ed urlanti. E a proposito di gridare sfidiamo chiunque a non farlo al ritornello: “Laylaaaaa.. You got me on my knees, Laylaaaa…..”. L’idea di inserire la delicata parte strumentale fu geniale, poco importa chi la scrisse, argomento che ha tenuto banco negli ultimi anni, dopo che Rita Coolidge, compagna di Gordon a quei tempi, ne rivendicò la paternità. E, come tutte le cose fantastiche, richiese la massima dedizione: Tom Dowd raccontò di quanto fu difficile e laborioso attaccarla alla prima parte. La dolcezza dell’acustica di Eric abbinata alla slide di Duane ed al soffice piano rendono l’atmosfera idilliaca dopo i primi tre minuti infernali. Tutti le sensazioni che si provano quando si è travolti da un’infinita passione sono presenti in questo capolavoro che lascia senza fiato per tutta la sua durata.
La nostalgica “Thorn Tree in the Garden” con Whitlock alla voce è la tranquillizzante chiusura dopo l’esplosione vitale dei precedenti tredici brani.
Purtroppo solo dopo un album terminerà l’avventura come gruppo di questi ragazzi che dettero l’anima per rappresentare in musica lo sconforto sentimentale provato da uno di loro.
È incredibile, quindi, come a volte le cose possano virare anche per il verso sbagliato: problemi di droga, litigi ed invidie sconquassarono i Derek and the Dominos.
Fortunatamente a fronte di un’abortita seconda opera vennero alla luce le registrazioni live al Fillmore di New York che nuovamente mostrarono la genialità del gruppo.