C'era una volta il Dogma 95, movimento del quale proprio Thomas Vinterberg, insieme al connazionale Lars Von Trier, è stato promotore e fondatore. Lo slancio dei due autori nacque dalla volontà di andare in controtendenza rispetto a un cinema, principalmente hollywoodiano, dominato dagli effetti speciali e da artifici visivi per tornare a un approccio più naturale alla materia, un ritorno alla recitazione, alle storie, a una messa in scena più semplice e spontanea.
Vinterberg e Von Trier non portarono avanti queste idee in maniera aleatoria e improvvisata, no, si diedero delle vere e proprie regole da seguire, una sorta di decalogo grazie al quale i futuri film del Dogma, una volta appurato il rispetto delle regole che andremo a breve a menzionare, riceveranno anche una sorta di certificazione di appartenenza e un numero progressivo a completare il titolo dell'opera. Una sorta di catalogo del movimento il cui esordio ufficiale toccò proprio a Thomas Vinterberg con l'ottimo Festen - Festa in famiglia, menzionato anche come Dogma #1.
In breve altri registi si unirono all'iniziativa impegnandosi a seguire regole abbastanza stringenti: solo camera a mano, suono naturale e niente musica aggiunta in fase di montaggio, nessun oggetto estraneo alle scenografie in cui si girava e che non dovevano essere "costruite", illuminazione naturale sia in diurna che in notturna, narrazione lontana dai generi, unità di tempo e via discorrendo. Un esperimento di grande interesse che produsse trentacinque opere e che si chiuse a un decennio dalla sua nascita avvenuta (come da nome) nel 1995.
Dal secondo film di Vinterberg, visto anche il successo di critica ricevuto da Festen che rimane tutt'oggi un grande film, ci si sarebbe quindi aspettata la stessa aderenza al progetto, schiena dritta e andare, invece l'autore, come per una sorta di subitanea abiura, abbandona il Dogma per gettarsi (anche se non completamente) tra le braccia di Hollywood, realizzando un film con tanto di effetti speciali, seppur non rutilanti, e siglando un'opera che non è nemmeno lontanamente riuscita come l'esordio e che lascia perplessi sotto più punti di vista.
Siamo in un futuro che ormai è già passato. Le forze del destino è ambientato nel 2021, il mondo è simile a quello che già conosciamo, almeno all'apparenza, ma si vedono chiari i segnali di un'avvicinamento al disastro incontro al quale la specie umana sembra dirigersi con un alto grado di noncuranza. Abbondano le morti improvvise, i cuori si fermano, i cadaveri vengono lasciati per strada o nei luoghi dei decessi senza che nessuno se ne curi, i passanti li scavalcano senza empatia né pietà. Inoltre le temperature, in barba al nostro riscaldamento globale, continuano ad abbassarsi delineando un pianeta sempre più freddo che va incontro a una sorta di nuova glaciazione: a New York nevica in Luglio e la gente sembra godersi il momento. Nel frattempo arrivano strane storie dall'Uganda dove la popolazione pare abbia iniziato a levitare.
In questo strano scenario il relatore universitario John (Joaquin Phoenix), diretto in Canada, fa scalo nella Grande Mela per incontrare sua moglie Elena (Claire Danes) e farle firmare i documenti per il divorzio. Il rapporto tra i due non sembra però così pessimo, Elena è una famosa pattinatrice su ghiaccio intorno alla quale ruota sempre un numeroso staff oltre ai componenti della sua famiglia, tutta gente alla quale John sembra in fondo piacere parecchio. Dopo il primo incontro però avvengono episodi un po' strani, delle figure non facilmente identificabili dal principio fanno la loro comparsa e intorno a Elena sembra nascere un alone di pericolo e turbamento. Starà a John fare luce sulla situazione in un mondo che sembra non avere più punti fermi.
Confrontando le prime due opere di Vinterberg si può dire che l'uscita dal Dogma non abbia fatto bene al regista danese. Le forze del destino, che si fregia di un titolo italiano tanto anonimo quanto idiota, è un film che manca di messa a fuoco (nonostante qui, perdonatemi la battuta, Vinterberg abbia potuto usare tutti i mezzi a sua disposizione); è difficile capire dove il regista voglia andare a parare, non solo dal punto di vista narrativo, ma soprattutto nella volontà di comunicare o trasmettere qualcosa. Può essere che la chiave di lettura sia quella di un'umanità rassegnata e indolente che non sa da che parte andare, cosa che si riflette in un film che non è di certo inguardabile ma che risulta un po' insapore, senza una direzione, difetto difficilmente perdonabile a un'opera seconda che sulle spalle si porta un predecessore illuminato come Festen.
Altro "delitto" è lo sperpero di un attore come Sean Penn, relegato a una piccola parte non chiaramente leggibile: è il fratello di John che vaneggia a telefono a bordo di un aereo, mezzo di trasporto del quale apprendiamo lo stesso abbia avuto il terrore fino a poco prima. Il nucleo centrale del film, quello che riguarda Claire e che qui non sveleremo, sembra non trovare un vero punto di interesse, e anche Phoenix non può molto, affogato in uno script confuso e poco accattivante anche dal punto di vista visivo.
Rimangono alcuni buoni momenti, qualche location più interessante (i corridoi dell'hotel) e poco altro, peccato perché nel complesso si percepisce come qualcosa di meglio sarebbe potuta facilmente saltar fuori da questo lavoro, così non è stato. Da guardare solo se si è fan del genere "fine del mondo in avvicinamento", con la consapevolezza che anche in questo segmento c'è di meglio da recuperare.