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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
12/07/2021
Laguna Bollente
Le interviste di Loudd
L’espressione “segreto ben custodito” è ormai fin troppo abusata, soprattutto in ambito musicale. Nel caso dei Laguna Bollente, però, potrebbe essere il caso di tirarla nuovamente in ballo.

Il duo, che si è formato a Venezia ma è attualmente di base a Pordenone, non è presente su Spotify e non ha mai utilizzato i canali abituali per promuovere la propria musica. Hanno realizzato due “demotape” su cassetta (i titoli, “Discocesso” e “Nord Sud Ovest Sert”, dicono molto del loro universo narrativo), segno di un attaccamento al formato fisico che da più parti viene considerato un fenomeno ormai superato. Non utilizzano i Social, ad eccezione di Instagram, di cui però fanno un uso esclusivamente personale (non esiste infatti una pagina ufficiale della band).

Prendono il nome da un ex club per scambisti di Mestre, la città dove si sono conosciuti e dove hanno vissuto per diverso tempo; hanno testi sboccati, ironici e a tratti sarcastici che si stagliano su un tessuto sonoro dalla chiara impronta Post Punk, con un’oscurità dei fraseggi ritmici che ricorda a più riprese i Joy Division. Tutto, dalla veste grafica al contenuti musicali, dice di un progetto ben strutturato e consapevole. Li ho visti dal vivo al Mi Manchi di Milano, l’anticipazione del Mi Ami dedicata ai gruppi emergenti, e mi hanno impressionato per la scioltezza e la semplicità con cui hanno portato la loro musica sul palco, nel pomeriggio della terza giornata.

Qualche giorno dopo ho chiamato al telefono Dunia Maccagni (voce, chitarra, programmazioni) ed Elia Fabbro (basso, programmazioni, cori) e ne è nata una bellissima chiacchierata che ha permesso di conoscere meglio la genesi e la filosofia di questo progetto. Erano presenti tutti e due ma di fatto è stata Dunia che ha condotto la conversazione, con Elia presente al suo fianco, spesso ad annuire divertito. Qui di seguito c’è quello che è venuto fuori. Se ve li siete persi recuperateli: nei prossimi mesi suoneranno in giro e conviene davvero controllare se passeranno vicino a casa vostra.  

Come nasce il vostro progetto?

Io ed Elia ci siamo conosciuti a Venezia: ero lì per studiare e cercavo casa, l’ho trovata a Mestre con lui, all’inizio eravamo solo coinquilini. Ho iniziato a suonare la chitarra ma in modo abbastanza approssimativo mentre invece lui aveva già fatto dei progetti musicali, ad esempio con Lupetto, un gruppo di Pordenone. Da lì ci siamo messi insieme a fare questa cosa ed è stato tutto piuttosto casuale. Un pomeriggio ero in casa, c’era l’attrezzatura per registrare e così mi sono messa a lavorare a questo testo che avevo composto assieme ad altri coinquilini e a persone che giravano attorno alla nostra compagnia di amici; è così che è nato tutto quanto, da una dimensione molto collettiva.

Però adesso ci siete solo voi due, giusto?

Sì, adesso sì. All’inizio i testi erano nati da frasi dette da qualcuno di noi, versi di poesie, cose sentite da qualche parte… come una sorta di collage. Il primissimo che abbiamo scritto è stato “Latta”, gli altri che sono nati dopo li ho composti soprattutto io, Elia ha fatto “Super”, che sta sul secondo Ep, in generale comunque è un progetto collaborativo, ci piace prendere input da varie persone, da una collettività.

Avete una veste sonora che potremmo definire Lo Fi ma si capisce che è una soluzione che avete scelto e meditato, non deriva certo da un vostro pressappochismo. E poi mi colpisce molto questa impronta Post Punk e New Wave, un’oscurità generale che contrasta, almeno in parte, con il carattere provocatorio dei testi.

Dipende sempre da pezzo a pezzo però normalmente ci piace fare quella che chiamiamo la dinamica del “pacchettone”: prendere tanti suoni, tanti elementi, metterli tutto insieme in modo tale che restituiscano una sorta di impatto emotivo. Generalmente non si tratta di suoni che stanno bene se presi singolarmente, ma tutti insieme costituiscono un pattern che si collega a quello che dicono i testi…

Elia: Un muro di suono, diciamo.

Dunia: Partiamo spesso dalla melodia, poi normalmente abbiamo qualche parola scritta da qualche parte e cerchiamo di riordinare le idee. Non è sempre sicuro dove un testo debba andare a parare, però lavorandoci passo dopo passo, andiamo avanti insieme e completiamo il tutto. Spesso ci succede che completiamo mezza canzone, sia a livello testuale sia strumentale, e l’altra metà la completiamo in un secondo momento. Elia compone le linee di basso, io mi occupo della voce e delle chitarre, mentre batterie e Synth li programmiamo insieme. Su questo siamo indipendenti: capita a volte che lui sia al lavoro e io metta mano al file di Logic, oppure io sono via e lui si mette a rifinire i volumi, oppure metto giù un Synth che non c’era prima… diciamo che ho imparato molto da lui, lui mi ha un po’ “allenata”, per così dire, io ho assimilato molto e quindi adesso riusciamo ad andare dritti.

Ho visto la video intervista che vi hanno fatto i ragazzi di Dischi Sotterranei (la loro etichetta NDA) e mi ha colpito il sentirvi nominare tutti questi gruppi, alcuni anche improbabili: non avrei mai detto, per dire, che ad Elia piacessero i Red Hot Chili Peppers (Elia ride NDA). Nonostante tutte queste influenze, la vostra impronta è molto ben riconoscibile, però, avete un sound che è veramente vostro…

Le risposte che abbiamo dato in quell’intervista rappresentavano i nostri primi ascolti innocenti, le cose che ti piacciono quando sei piccolo; nel nostro caso erano i primi anni Duemila, la musica era molto diversa allora. Eppure, se prendiamo un artista come Caparezza, che con noi non c’entra assolutamente nulla, si può vedere come in lui vi fosse una certa volontà di parlare di questioni sociali, emotive, legate anche alle relazioni amorose. E questo vale per tutti gli artisti che abbiamo ascoltato, anche se tu forse Elia sei stato sempre abbastanza coerente, coi Pavement e quelle cose lì… ad ogni modo è come un Frankenstein: prendiamo elementi da ogni artista e creiamo un qualcosa di completamente diverso.

I testi sono forse l’elemento che vi caratterizza di più. Utilizzate uno stile a tratti impressionistico, con una serie di immagini spesso slegate tra loro; poi c’è questa verve comico irriverente che non disdegna però un certo impegno sociale. Tutti questi ingredienti creano un effetto di netto contrasto, soprattutto nella dimensione live: a vedervi, non si direbbe mai che possiate essere così sboccati…

È molto difficile da spiegare. In “Buonanotte” di Nanni Moretti c’è una scena in cui due personaggi discutono: uno dei due utilizza tutta una serie di termini e riflessioni pacate, con un tono anche un po’ buonista. Ad un certo punto il personaggio interpretato da Moretti comincia ad urlare e ad insultare. E poi dice una frase del tipo: “Ancora una volta la volgarità trionfa!”. Questo vuol dire che alle volte è necessario spingere verso qualcosa di osceno, qualcosa che è considerato brutto, occorre spingere in quella direzione per dare  rilevanza ad altro, al vero messaggio che si vuole far passare. Voglio dire, una persona che sente tutta quella violenza a livello verbale, probabilmente poi si concentrerà sull’ascolto di quello che c’è all’interno. Il fatto di utilizzare questi termini, viene anche dal cantautorato italiano: uno come De André, ad esempio, ha sempre bestemmiato nei testi. Ma anche Rino Gaetano, Paolo Conte… tutta gente che ha usato le oscenità per portare l’attenzione su tematiche serie. Che ne so, un’espressione come “Cristo drogato” è piuttosto pesante da dire, ma non per questo si direbbe che De André fosse uno zoticone, no (ride NDA)?

Qual è dunque il concetto di fondo dei vostri testi? Qual è la cosa più importante che volete comunicare?

Che le persone vanno accettate anche nelle loro bassezze più schifose. Oggi c’è questa tendenza a costruire a tutti i costi un’immagine positiva di ciascuno, in modo tale che possa risultare piacevole. Molte persone che vivono una situazione di disagio, relativamente all’abuso di sostanze o all’abuso di alcol, e che non hanno dei canali per esprimersi perché vengono considerate da buttare… ecco, secondo noi non è così e allora attraverso queste canzoni vorremmo rivalutare un po’ il ruolo degli ultimi, che specialmente in questo periodo particolare si sono sentiti tagliati fuori. È un periodo in cui, per tutta una serie di motivi, le disparità sociali stanno aumentando. Pensiamo anche alla scuola: lo studio, che in Italia dovrebbe essere un diritto garantito, costa tantissimo, ci sono famiglie che non possono permettersi di far studiare tutti i loro figli. Questo non è normale, perché l’istruzione dovrebbe essere pubblica, specialmente adesso con la pandemia, dove un sacco di bambini soprattutto stranieri non ha potuto partecipare alle lezioni. Questo non va bene, anche perché se poi la gente non studia, ci troveremo davanti ad un mondo molto brutto, in futuro. Quindi sì, vorremmo appiattire questo discorso delle disuguaglianza basato sulle immagini, per cui devi per forza dare un’immagine di successo, mentre invece credo che oggi come oggi le persone avrebbero bisogno di sentirsi un po’ più deboli.

C’è in effetti una dimensione militante nella vostra musica, anche se rimane sotto traccia. E mi verrebbe da dire che in Italia questa cosa una cosa si è un po’ persa: oggi si insiste molto di più su tematiche personali e il tono è spesso piuttosto frivolo…

Verissimo quello che dici. Negli anni ’70, nell’epoca d’oro del cantautorato italiano, si faceva a gara a chi faceva lo “sputtano” più grande. Quando è morto Rino Gaetano, che era stato rimbalzato da ospedale a ospedale, e anche lì ci sono tutta una serie di retroscena che non si sono ancora chiariti, lui era un personaggio che stava dicendo delle cose che andavano contro anche ai suoi stessi interessi. Avrebbe potuto andare a Sanremo, avere più successo di quello che ha avuto ma ha detto cose e preso posizioni che in quel momento lì lo hanno screditato. Adesso non succede: a parte qualche eccezione tipo i Cosmetic, questo tipo di cose non si fanno più.

A questo punto si capisce che laddove, in un brano come “Saluti e sputi”, cantate: “Uccidete i drogati, immigrati e puttane”, c’è proprio un intento di denuncia; io all’inizio pensavo foste semplicemente irriverenti mentre invece è chiaro che l’ironia nel vostro caso è un mezzo per esprimere un certo tipo di contenuto…

Esatto, hai colto perfettamente il punto. Dall’interno è spesso difficile analizzare a freddo quello che si fa, confrontandosi invece certe cose si capiscono di più.

Avete un modo molto curioso di presentarvi, vi definite “Una donna col cazzo e un uomo con la figa”. Oltretutto i vostri testi sono narrati spesso attraverso una prospettiva maschile, cosa che contribuisce a creare una forte sensazione di straniamento.

Mi piace scrivere al maschile. Lo faccio per empatizzare: in quanto ragazza è difficile trasmettere determinati messaggi perché non sono considerati femminili. È un po’ come la medicina col miele, no? Lucrezio diceva che lui trasmetteva verità sulla vita attraverso la poesia, esattamente come ai bambini si dà la medicina cattiva nel bicchiere cosparso di miele, per rendergliela più piacevole. Per me usare il maschile nei testi risponde un po’ allo stesso disegno, fa capire che anche una ragazza può avere pensieri che esulano dalle dimensioni puramente fisiche, di immagine…

Cosa intendi dire?

Una volta ho sentito la cantante delle Videoclub dire che quando lei suona, si concentra sull’espressione che fa con la faccia, per non venire brutta in foto… ma come si fa? È evidente che c’è un condizionamento eccessivo dell’immagine ma è altrettanto vero che sia molto più difficile per una ragazza costruirsi un’immagine musicale: utilizzare la propria femminilità può essere una cosa positiva perché ti porta ad allargare il tuo pubblico. Diciamoci la verità: se una ragazza è una bella ragazza succede spesso che te la vai ad ascoltare più volentieri. Io vorrei evitare una dinamica simile. Non mi interessa spingere verso il gender fluid ma desessualizzare la musica sì, penso che sia ora. Una volta succedeva, no? Pensa a una come Mina: non è che venisse messa in primo piano la sua femminilità! Oggi invece non succede più.

Però è vero che il discorso è complesso. Di un’artista come Dua Lipa, per esempio, si danno entrambe le interpretazioni: che questo utilizzo marcato della femminilità sia un segno di sottomissione, mentre poi c’è chi sostiene che si tratti di un grosso segno di emancipazione…

Sì, però lei è un’artista poliedrica, non viene certo fuori solo per il suo fisico. Tuttavia mi chiedo: Per fare rispettare il mio corpo, ho per forza la necessità di esibirlo? Siamo sicuri che sia così? Non lo so, forse negli anni ’70 poteva valere un discorso simile ma adesso non penso…

Da qualunque lato la si voglia guardare, la vostra proposta è molto particolare, decisamente lontana da quello che nel nostro paese va per la maggiore: oggi nessuno fa queste cose, in Italia…

È tipico della comunicazione, incarnare dei trend contemporanei per arrivare alle masse, ci sta, non abbiamo nulla in contrario con quello che va oggi. A noi però non interessa arrivare ad un pubblico ampio, quanto a quei pochi che potrebbero aver bisogno della nostra musica.

Ed il vostro successo (non mi sembra azzardato utilizzare questa parola) è tanto più clamoroso quando si consideri che non siete su Spotify, non avete una pagina Facebook, siete su Instagram solo a titolo personale e i vostri due Ep sono usciti solo su cassetta, oltretutto con la dicitura anacronistica di “demotape”…

Dal momento in cui crei una pagina Instagram, dai vita ad un’immagine e noi non vorremmo farlo. Ci sono gruppi come i Verdena che non fanno nessun conto dell’immagine che hanno, penso che la maggior parte della gente che li ascolta, non sappia nemmeno che faccia abbiano. Ecco, per noi questa è una cosa importante perché in questo modo non si segue il personaggio ma il nucleo del progetto. Vogliamo dare valore al nucleo, non alle nostre vite personali. Poi nella nostra quotidianità dobbiamo per forza conformarci a certi criteri, a certi schemi, per esempio lavorare, con degli orari classici, ecc. Però nel suonare ci piace dare valore al messaggio, non tanto a noi. Prendi ad esempio Emma Nolde, che avrebbe dovuto suonare come headliner al Mi Manchi lo stesso nostro giorno e che ci è dispiaciuto moltissimo non vedere (il suo concerto è stato annullato a causa di un temporale NDA). Lei ci piace perché è una che fa quello che fa svincolandolo dal suo ruolo di femmina, donna, ragazza, da una qualsiasi immagine. Perché non è che da una parte c’è l’immagine della ragazza eterosessuale e dall’altra parte il gender fluid. Non si può vivere su questa contrapposizione, dovrebbe essere una cosa molto più sotterranea.

Da questo punto di vista, si può dire che “Joan Mirò” sia il vostro pezzo simbolo, quello che sintetizza e incarna meglio le vostre tematiche e il vostro modo di porvi?

Assolutamente sì. Infatti è nato in maniera molto veloce, eravamo lì con due chitarre classiche, lui suonava l’arpeggino che poi è diventata la parte del Synth, io facevo la parte del basso (e quindi, guarda caso, ci siamo scambiati i ruoli). Ci abbiamo cantato sopra ed è venuto fuori così, inizialmente non ci credevamo molto però (risate NDA)!

Vero tutto quello che avete detto però se ci fosse un cd non mi farebbe schifo comprarlo, eh (risate NDA)!

Elia: Il cd lo faremo sicuramente.

Il merch adesso ci sarà, è che a Milano eravamo super disorganizzati! In generale noi portiamo avanti un discorso di autoproduzione: ci siamo appoggiati a dei ragazzi che fanno editoria, uno di loro viveva a casa con noi, hanno contributo anche ad alcuni testi del primo Ep. Ovviamente producendo tutto da noi, abbiamo fatto pochi pezzi ed è andato via tutto subito!

Per fortuna!

Sì, però non ce lo aspettavamo e siamo rimasti totalmente scoperti, ma adesso vogliamo ristampare tutto: cassette, cd, magliette… però Spotify non ci convince ancora del tutto. L’unica piattaforma streaming su cui siamo presenti è SoundCloud…

Che succederà adesso? Avete date in giro?

Per quanto riguarda i concerti, abbiamo la stagione super piena, andremo anche a Roma, che per noi è una cosa assurda! Poi ci sarà un terzo Ep, che uscirà a settembre. Sarebbe dovuto uscire a giugno ma lo abbiamo rimandato perché mi stavo laureando e quindi ero parecchio piena. Uno dei probabili titoli, non ancora definitivo, potrebbe essere “Turbo Fallimento 2000”.