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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
03/05/2019
Steve Wynn (The Dream Syndicate)
Le interviste di Loudd
È il primo giorno di primavera e a Milano le condizioni atmosferiche sembrano perfettamente obbedire al calendario: giornata luminosa, calda e serena. Se la gode anche Steve Wynn, perché quando arrivo all’albergo in zona Navigli che lo ospita in questa tappa italiana del suo giro promozionale, scopro che è uscito un attimo a mangiarsi un gelato.

È un gran momento, per i suoi Dream Syndicate: due anni fa sono ritornati sulle scene quasi all’improvviso, con un disco importante e credibile, non certo il lavoro di routine per timbrare il cartellino e giustificare un tour a suonare i successi del passato per fan in preda alla nostalgia. Che non sia stata una fiammata di entusiasmo passeggero, lo abbiamo capito in fretta: “These Times”, il nuovo nato in casa della band californiana, è un’altra grandissima prova di forza da parte di un collettivo che, a questo punto, pare avere le intenzioni piuttosto chiare sul proprio futuro. O sul proprio presente, sarebbe meglio dire: ascoltando i nuovi pezzi, si percepisce netta la voglia di rileggere la tradizione ma anche di aprire nuove strade. Niente di particolarmente innovativo, per carità, ma una focalizzazione maggiore verso la componente sperimentale, un desiderio di libera espressione che fuoriesce apertamente da un lavoro che, rispetto al precedente, mostra un carattere decisamente più variegato. Ed è, inutile dirlo, l’ennesimo centro di una carriera breve (almeno finora) ma che non ha mai conosciuto cali di tensione.

Steve Wynn si presenta pochi minuti dopo, sorridente e gentilissimo. Ci sediamo ad un tavolo della hall e questo è più o meno quello che è venuto fuori.

Due anni fa avete fatto un disco, lo avete portato in tour (io vi avevo visto a Milano ed era stato fantastico) e adesso siete ritornati con un altro lavoro nuovo di zecca… evidentemente non si trattava di una reunion estemporanea…

Penso che ormai non si possa più parlare di “ritorno”, di “come back”. Il disco precedente lo abbiamo fatto per dire: “Vedete? Siamo ancora la band che avete amato ma siamo anche diventati qualcosa di nuovo.”. E nel momento in cui abbiamo fatto quel passo, ci siamo sentiti di avere la libertà di fare qualunque cosa avessimo voluto. Ecco, il nostro nuovo disco nasce da qui. In precedenza, eravamo semplicemente esaltati dall’idea di scrivere un nuovo capitolo ma qui abbiamo voluto raggiungere la completa libertà. Per fortuna abbiamo un’etichetta, la Anti, che apprezza quello che facciamo e che valorizza la creatività al di sopra di qualunque altro fattore. Sai, siamo nati negli anni ’80 e ci abbiamo sempre messo tanto tempo a completare un album, tant’è che è sempre stato un mio grande rammarico l’averne fatti così pochi! Per cui adesso che abbiamo la libertà di fare quello che vogliamo, ce la prendiamo molto volentieri…

Mi puoi fare qualche esempio di cosa voglia dire prendersi tutta la libertà che si vuole?

Sia per “How Do I Find Myself Here” che per “These Times” abbiamo registrato almeno venti pezzi: questo vuol dire che ci sono un sacco di canzoni che non abbiamo pubblicato…

Quindi c’è in giro un bel po’ materiale inedito?

Tantissimo! Ma d’altronde ci piace scrivere, per cui scriviamo! In questo momento potremmo pubblicare un disco di outtake, oppure potremmo metterci a registrare nuova musica, non lo so. Ci piace improvvisare, ci piace esplorare, cogliere occasioni per andare in direzioni differenti… e poi andare in tour e far vedere alla gente chi siamo esattamente in quel determinato momento.

A proposito di questo: entrambi i dischi si focalizzano molto sul presente. Soprattutto quest’ultimo, a partire dal titolo, ma poi lo sottolinei anche nelle note stampa: “Dove siamo? Siamo qui. Qui e ora.”

È curioso perché quando in questo periodo mi capita di parlare della band a qualcuno, dico: “Abbiamo lo stesso nome di una band degli anni ’80, qualche volta dal vivo suoniamo le loro canzoni ma siamo qualcosa di completamente diverso!”. Penso che in un certo qual modo, “How Do I Find Myself Here” ripartisse da dove “The Days of Wine and Roses” aveva lasciato. Mi piacciono i dischi che abbiamo fatto negli anni ’80, mi piace “Medicine Show”, mi piace “Out of the Grey”, mi piace “Ghost Stories”, ma penso che, in definitiva, ora siamo molto più psichedelici, improvvisiamo e sperimentiamo molto di più. Negli anni ’80, in definitiva, eravamo una rock band. Un’ottima rock band, per carità ma pur sempre una rock band. I Dream Syndicate di adesso sono un gruppo psichedelico, sperimentale, strano e imprevedibile.

Quindi vi definireste “meno rock”, in un certo senso?

Assolutamente sì. Certo, quando saliamo sul palco ci piacciono ancora i suoni distorti e i volumi alti ma il rock ci interessa molto meno di prima. Adesso vogliamo essere soprattutto una band psichedelica: con questo termine non intendo certo che vogliamo indossare delle magliette stinte (ride NDA) ma che vogliamo fare musica che ti faccia viaggiare.

A proposito di questo di questo, in “The Way In”, che è anche il pezzo che apre l’album, dici: “Trying to reconcile the past with the present”…

Esattamente. Quel pezzo è esattamente quello che dice il titolo: “The Way In”. È un modo per entrare nel luogo dove siamo in questo momento. Parla proprio di come fare a trovare un via per relazionarsi col passato e allo stesso tempo, trovare un modo per guardare avanti. In questo senso, è giusto che sia la prima canzone del disco. Abbiamo una storia lunga, una grande storia e siamo fortunati, perché ci sono molte band che dicono: “In quel periodo eravamo proprio grandi!” ma io non voglio far parte di una band di nostalgici…

È proprio questo il punto, secondo me. Io sono relativamente giovane, ma comunque troppo giovane per avervi potuto vedere in azione nel vostro periodo “classico”, diciamo così. Adesso siete tornati e siete davvero credibili e convincenti, ma ci sarà sempre e comunque una buona fetta di persone, chi c’era all’epoca ma anche quelli come me, che continueranno a riferirsi a voi come “Quelli di “Medicine Show”…

Ho capito quel che intendi dire ed è un qualcosa a cui penso spesso. Per esempio, in Norvegia siamo molto conosciuti e la canzone “Boston” è molto amata in quel paese. E noi nell’ultimo tour “Boston” non l’abbiamo suonata quasi mai perché non volevamo fare semplicemente una scaletta di classici, volevamo inserire le canzoni vecchie che più avessero a che fare con quello che eravamo in quel momento. E penso proprio che in questo tour faremo esattamente la stessa cosa: suoneremo le canzoni del nostro repertorio che più avranno la possibilità di incastrarsi con quelle di “These Times”. Questo è quello che intendo dire con “rileggere il passato alla luce del presente”. Non vogliamo ignorare il passato, non vogliamo salire sul palco e dire: “Gli anni ’80 non ci sono mai stati!”. No, gli anni ’80 ci sono stati ma questo è quello che siamo ora…

Uno dei brani del disco che mi ha colpito di più è “Put Some Miles On”: mi sono piaciute tantissimo le chitarre, in particolare questa scelta che avete fatto di lasciarne una sullo sfondo, molto indietro nel mix. E poi è interessante il giocare sul doppio significato del termine “Miles”, le miglia percorse e la musica di Miles Davis…

Ah, l’hai capita? Grande (risate NDA)! Beh, è una canzone fatta per divertirsi e divertire, nella musica dei Dream Syndicate questo aspetto c’è sempre stato. Abbiamo scritto un brano dove parliamo di tutti gli anni passati sulla strada, dei chilometri percorsi, di tutto quello che siamo diventati… e ci è piaciuto fare anche questo gioco di parole. È una canzone selvaggia, la chitarra di cui parli è merito di Jason (Victor NDA), le cose più pazze le ha fatte lui, sul disco! Io qui sono quello che fa quel suono: “He He He” (imita l’effetto della sua chitarra su questa canzone, poi scoppia a ridere NDA), tutto il resto lo ha fatto Jason, ha tirato fuori davvero delle cose meravigliose. Sinceramente non so come faccia a fare quello che fa nel modo in cui lo fa: ogni tanto lo guardo mentre suoniamo e rimango basito…

Avete registrato in presa diretta?

Sì, assolutamente. Abbiamo sempre fatto così e ci piace farlo ancora adesso. Aggiungiamo sempre qualcosa in un secondo momento ma il grosso viene sempre registrato dal vivo, in presa diretta. Non siamo quel tipo di band che registra uno strumento alla volta. Ci piace guardarci mentre suoniamo, interagire tra di noi, rispondere a quello che avviene in quel determinato momento. È sempre stata la caratteristica dei Dream Syndicate: fare musica in tempo reale.

Che cosa puoi dirmi invece di “Black Light”? Penso che rispetto a “Put Some Miles On” rappresenti esattamente il lato opposto del disco. Anche il video è particolarmente disturbante… pensi che possa riflettere l’aspetto più inquietante e minaccioso del tempo presente, dell’epoca contemporanea?

In qualche modo sì. Esprime l’idea che ciò che è bianco è nero, ciò che è nero è bianco, l’idea che tutto può essere manipolato, che quello che sembra una cosa in realtà è qualcos’altro. Può avere a che fare con il tema della disinformazione e quindi può avere un carattere politico ma può anche essere inteso dal punto di vista culturale o addirittura parlare della musica, di come possa sempre sorprenderti. In generale, parla delle cose che non sono mai quello che sembrano. Hai presente la luce nera? Trattiene la luce e rende fosforescenti le cose che illumina: a me piace dipingere e spesso utilizzo questa tecnica…

Non sapevo che dipingessi…

È una cosa che faccio per divertimento, non posso dire di essere particolarmente bravo però ogni tanto faccio delle mostre, in questo momento ne ho una ad Austin, in Texas. Mi piace molto dipingere con la luce nera, proprio per il fatto che, quando illumini qualcosa in quel modo, assume delle sembianze completamente differenti.

In effetti nel video si vedono queste creature fosforescenti…

Bello il video, vero? L’ha fatto David Dalglish, un ragazzo davvero bravo, è il terzo video che fa per noi. Pensa che all’inizio nemmeno lo conoscevo! È scozzese, ho visto un lavoro che aveva fatto per questa band di Portland chiamata Eyelids, per cui l’ho contattato via mail. Per noi ha realizzato “Black Light”, “Put Some Miles On” ma il primo che ha fatto è stato “Recurring (Steve’s Dream)”, un brano che avevamo fatto uscire per il Record Store Day. A questo punto spero che faccia tutti i nostri video da qui in avanti! Sai, non abbiamo mai girato tanti video in carriera ma adesso mi piacerebbe fare come i Cure, che giravano i loro video sempre con lo stesso tizio… sarebbe un modo per raccontare una storia che vada avanti assieme a noi.

“Speedway” invece è un brano molto più classico, veloce, Bluesy … fa strano trovare un pezzo così all’interno di quello che è il vostro lavoro più sperimentale…

È probabilmente la mia preferita. Per qualche ragione mi ricorda molto i Moby Grape, questa band di San Francisco della metà degli anni ’60, molto psichedelica. È un brano che mi piaceva molto, appunto, ma ho dovuto convincere gli altri ad inserirla nel disco perché secondo loro era fin troppo old fashioned. Ho dovuto lottare per quella canzone ma alla fine ho vinto (ride NDA)!

Immagino che dal vivo farà faville…

Immagino di sì, lo scopriremo… sai una cosa? Questo disco ha davvero tantissime backing vocals! Le ha realizzate Steve Mc Carthy, un nostro vecchio amico, che è venuto apposta a New York per registrarle. All’inizio dovevano essere solo per due canzoni ma poi, dopo averle fatte, ci ha detto: “Mi piacerebbe provare qualcosa anche sulle altre” e noi: “Vai tranquillo, tanto abbiamo tutto il giorno!”. Si è messo lì, ha fatto una canzone per volta e tutto quello che tirava fuori era fantastico. Alla fine, è diventato una parte fondamentale del disco. Le voci che ha fatto assieme a mia moglie hanno cambiato totalmente la faccia dell’album. È stata davvero una bella sorpresa! Alla fine, quando la giornata in studio è terminata, ci siamo accorti che anche il disco era finito…

E dal vivo come farete?

Ah boh, troveremo un modo (risate NDA)! Per fortuna nella band siamo tutti dei buoni cantanti… Steve in particolare è molto bravo!

C’è un verso in “Recovering Mode”, sul fatto di essere uno squalo oppure un coniglio che mi è parsa molto interessante…

È una canzone che parla di qualcuno che si disintossica dalla droga o da qualunque altra dipendenza che li abbia rovinato la vita. E mentre ti disintossichi, la cosa più importante da fare è capire chi sei, chi vuoi essere. È questo il senso del verso.

E per quanto riguarda “Space Age”? Recentemente ho letto qualche articolo per cui sembrerebbe che lo spazio, come idea e come veicolo di progetti, sogni e utopie, non vada più di moda. La stessa NASA pare non investa più come prima tanto che Elon Musk ha potuto facilmente affittare delle rampe di lancio per la sua Space X. Già Simon Reynolds, nel suo “Retromania”, che ormai comincia ad essere un testo datato, aveva affrontato questo aspetto, citando espressamente la perdita di fascino dell’idea di futuro…

Questa e “Still Here Now” le avevamo scritte per il disco precedente ma erano rimaste fuori. Dal punto di vista del testo, riflette più o meno quello che hai detto perché esprime il fatto che il futuro che abbiamo adesso, quello che è il nostro presente, è parecchio diverso da quello che ci immaginavamo da bambini. La stessa espressione “Space Age” in realtà è passata di moda… hai presente quella band con quel nome strano, We Were Promised Jetpacks? Ecco, volevamo dire quella roba lì: il futuro che ci è stato promesso non è certo uguale al presente che abbiamo ora. Alla fin fine credo si possa definire una canzone giocosa su come il futuro sempre ti sorprenda!

“Treading Water Underneath the Stars” è un pezzo splendido, direi il modo migliore per finire il disco, è un brano anche molto d’atmosfera, pieno di suggestioni… e anche il testo è particolare: mi piace questa sua vena narrativa un po’ fantascientifica, sembrerebbe, ma allo stesso tempo questo suo rimanere indefinito, questo fatto che non si riesca a capire di che cosa parli davvero…

È esattamente come dici tu: mi piacciono molto questi testi in cui vedi qualcosa, ci sono delle scene, delle immagini ma non riesci mai a capire cosa sta succedendo, non riesci a ricostruire del tutto il contesto. È come vedere da lontano, oppure guardare delle immagini attraverso una telecamera sgranata. Qualcosa sta accadendo: ci sono questi contadini che stanno cercando di portare l’acqua da qualche parte, hanno dei piani, ma non sappiamo né come, né perché. Questo è tutto quello che abbiamo, questo è tutto quello che c’è da sapere. Sai, è strano perché apparentemente non c’entra nulla ma sono un grande fan degli Steely Dan: i loro testi mi sono sempre piaciuti tantissimo e sono fatti più o meno così, con qualcosa di brutto che sta per accadere, qualcosa di minaccioso, oppure qualcuno è in pericolo da qualche parte, qualcuno sta facendo qualcosa che non dovrebbe fare, ma non si riesce mai a capire nulla di preciso. Eppure riesci ad avere la sensazione, riesci a percepire una certa atmosfera, è quasi come se tu fossi lì, a guardare da fuori in una stanza con le tende tirate, in punta di piedi, cercando disperatamente di capire che cosa sta succedendo dentro. Così è per “Treading Water Underneath the Stars”: ho anche la mia teoria su che cosa stia davvero succedendo, potrei dirla ma non avrebbe molto senso, non è quello il punto…

Nel senso che ogni tanto il mistero è molto meglio della soluzione del mistero…

Esattamente.

A livello musicale, peraltro, la scelta di finire il disco con questo brano è particolare perché lascia il tutto sospeso, in bilico, come se non fosse in realtà finito nulla…

Abbiamo deciso di far andare avanti il più possibile la Pedal Steel, per creare una sorta di feeling ansioso. Mi piaceva finire con questa nota che forse è di speranza, che forse ha dentro una domanda inespressa: “Da qui, dove andremo ora?”. È una sorta di finale pacifico, all’interno di un disco dove le canzoni hanno tutte un certo feeling nervoso, ansioso.

È un altro brano che aspetto di sentire dal vivo, tra l’altro. Ma più di tutte “The Whole World’s Watching”: potrebbe uscire in maniera davvero straordinaria…

Anch’io! Ti rivelo questa cosa: durante le session di questo disco facevamo lunghe jam ogni giorno, durante le quali cercavamo nuove forme, nuove soluzioni. Di queste Jam, l’unica da cui poi abbiamo tratto una canzone è stata proprio “The Whole World’s Watching” che in effetti, se ci fai caso, è un pezzo in forma libera, funziona proprio come una session di improvvisazione, è venuta fuori dal nulla. E pensa che la sessione originaria da cui quel pezzo è uscito dura 80 minuti: l’abbiamo suonata una notte, dalle 23.30 alla una del mattino!

L’avete registrata?

Certo che sì! E ti dico che è davvero fantastica! La stavo ascoltando in aereo, un paio di giorni fa, è veramente buona! Certo, non è una cosa per tutti, siamo noi che facciamo quello che facciamo, liberamente, nella nostra forma migliore. Però sarebbe bello pubblicarla, prima o poi, magari come bonus disc di un’edizione limitata o qualcosa del genere. Alla fine, l’improvvisazione è la cosa che sappiamo fare meglio. Ci sono un sacco di band che sanno suonare Pop o Rock Song meglio di come lo facciamo noi ma noi siamo bravissimi a fare questo…

In effetti quando vi ho visti a Milano, ho ancora negli occhi questa versione chilometrica di “John Coltrane Stereo Blues” che è stata una roba da lacrime…

Ti è piaciuta? Sono contento! È quello che facciamo meglio e penso che nel nostro prossimo tour daremo ancora più spazio a questo elemento, renderemo l’improvvisazione il punto centrale dell’intero show. Vedi, nel tour precedente era importante per noi riappropriarci del palco, dimostrare a noi stessi che eravamo ancora una band in grado di suonare assieme. Adesso penso che siamo pronti a far accadere qualcosa di diverso ogni sera. Poi alcune volte funzionerà meglio, altre volte meno ma è importante fare sempre qualcosa di unico per il nostro pubblico. È una cosa che ho imparato da mia moglie, che una volta mi ha detto: “Non sottovalutare il tuo pubblico! Non pensare che siano lì solo per sentire i classici!”.

Anche perché ci saranno senz’altro un sacco di persone che, avendovi visto tre o quattro volte, non vorranno sentire sempre le stesse canzoni…

A me poi non è mai piaciuto replicare lo stesso spettacolo, suonare solo quello che si pensa ci si aspetti da me. Diciamo che ci è sempre piaciuto essere più come i Grateful Dead che come i Rolling Stones (risate NDA)!

Del resto negli ultimi anni la vostra line up non è mai cambiata, penso che anche per questo siate molto più a vostro agio col palco, giusto?

Certamente. Sento che sappiamo fare le cose molto meglio di prima e che, soprattutto, abbiamo ancora tantissime cose da dire: non mi stupirei infatti se il prossimo disco uscisse molto velocemente. Come ti dicevo prima, mi è sempre dispiaciuto di non aver pubblicato più dischi in passato per cui può darsi che adesso rimedieremo!

Anche un altro Live album non sarebbe una cattiva idea…

Immagino di no! Vedremo…

Non ti ho ancora chiesto della copertina, anche se ora che abbiamo parlato, tutto acquista più senso: è forse la vostra cover più psichedelica in assoluto…

Sì, è anche molto Progressive ed è una cosa che ha senso perché “These Times”, da un certo punto di vista, è un disco Progressive, anche se non vuol dire che siamo diventati come gli Emerson, Lake & Palmer! L’ha disegnata un grande artista, Robert Beatty, probabilmente lo conosci perché ha lavorato coi Tame Impala…

Ha fatto la copertina di “Currents”, per caso?

Sì, ha lavorato anche con parecchie altre band, ha fatto tutti i dischi di Chris Forsyth, un chitarrista che amo tantissimo, infatti l’ho scoperto tramite lui… è veramente bravissimo, si ispira molto ai lavori della Hipgnosis e penso che il suo stile si adatti perfettamente al nostro disco. Ha voluto ascoltarlo tutto prima di realizzare la copertina per cui questa è l’interpretazione di quello che ha visto!

 

Poche ore dopo sono a Germi, il nuovo locale aperto da Manuel Agnelli e Rodrigo d’Erasmo, dove Steve è stato invitato a suonare. È stata una bella serata, dove ha lasciato per un attimo il Paisley Underground, per abbracciare la chitarra acustica e rispolverare alcuni episodi della sua carriera solista, oltre ovviamente a qualche brano dei Dream Syndicate (e qui “Boston” l’ha suonata). Ad accompagnarlo in quasi tutti i pezzi, Rodrigo d’Erasmo al violino (i due, mi aveva detto nel pomeriggio, si conoscono da parecchio tempo e non era la prima volta che suonavano insieme) e ad un certo punto pure lo stesso Manuel Agnelli, che si è seduto al piano per tre pezzi, tra cui una versione di “Bridge Over Troubled Water” improvvisata così su due piedi ed uscita tutto sommato discretamente.

Alla fine si è presentato pure Enrico Gabrielli che, secondo una storia raccontata dallo stesso Wynn e che sembra talmente assurda da non poter non essere vera, sarebbe stato invitato quella sera, dopo che i due si erano per caso incontrati sui Navigli alla mattina

Un bell’antipasto in vista di giugno, quando ritroveremo i Dream Syndicate al gran completo per un bel po’ di date nel nostro paese. 


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