A volte avere il vicino di casa giusto è fondamentale. Ne sa qualcosa Jimmy Hayward, animatore della Pixar (Toy Story, Monsters & Co., Alla ricerca di Nemo), regista professionista (Jonah Hex, Free Birds – Tacchini in fuga) e chitarrista dilettante, che abita a Los Angeles a pochi metri di distanza da Danny Carey, batterista dei Tool, il quale, complice un barattolo di maionese terminato anzitempo, un bel giorno è andato a bussare alla porta di casa Hayward. Tra Jimmy e Danny è nata così un’amicizia che ha portato i due a suonare insieme senza impegni, se non quello del reciproco piacere di passare del tempo insieme. Nel corso degli anni, nella sala prove dei due amici si sono alternati diversi musicisti professionisti, tra i quali Joshua Homme e Troy Van Leeuwen dei Queens of the Stone Age, ma è solo con l’arrivo di David Dreyer che il progetto di una band vera e propria inizia a prendere forma. Hayward e Dreyer, entrambi di origini irlandesi (e quindi abbeveratisi fin dall’infanzia alla fonte di una tradizione nella quale le leggende marinaresche si sprecano), colgono il potenziale insito in un cortometraggio di quest’ultimo, intitolato proprio Legend of the Seagullmen, e decidono di svilupparlo. Completare la line-up del gruppo diventa quindi un gioco da ragazzi: alla chitarra solista viene reclutato Brent Hinds (che di leggende marine se ne intende dato che con i Mastodon in Leviatan ha raccontato il Moby Dick di Melville), al basso Pete Griffin dei Dethklok, alle tastiere Chris Digiovanni e alle orchestrazioni Dom Lewis (entrambi con diverse colonne sonore all’attivo).
Ascoltando le otto canzoni che compongono Legend of the Seagullmen, la prima cosa che viene in mente è quella di trovarsi di fronte a un curioso incrocio tra i Blue Öyster Cult di Secret Treaties e i Tenacious D, con elementi rubati di volta in volta a Black Sabbath, Manowar, Motörhead, Iron Maiden e – ovviamente – Mastodon e Tool. Infatti da un lato, nell’opener “We are the Seagullmen”, non si può non ricordare che alla batteria siede Danny Carey (che esibisce passaggi ritmici che paiono usciti direttamente da un album dei Tool), mentre dall’altro, nel bellissimo assolo di “The Fogger”, è evidente la firma di Brent Hinds.
Ascoltando questo Legend of the Seagullmen, quello che emerge maggiormente – al netto delle storie di naufragi e mostri giganti che fanno capolino dal più profondo degli oceani – è l’amore per il caro vecchio Heavy Metal di una volta, quello che tra i primi anni Settanta e la metà degli anni Ottanta ha consegnato ai posteri i lavori che hanno contribuito a formare l’immaginario di almeno un paio di generazioni. “Shipswreck” sembra uscita da Holy Diver di Dio, “Curse of the Redtide” è un più di un tributo ad “Astronomy” dei Blue Öyster Cult, “Legend of the Seagullmen” l’avrebbero potuta scrivere Bruce Dickinson e Steve Harris, e “The Orca” sembra una b-side di Heaven & Hell dei Black Sabbath. Il vero colpo da maestro è però il finale dell’album: la spiazzante “Ballad of the Deep Sea Diver”, che inizia con una chitarra riverberata che sembra uscita dritta dal duello di un film Western, per poi, in un crescendo inesorabile, trasformarsi in un vero e proprio tributo a Ennio Morricone e alla sua “L’estasi dell’oro”. Un finale ambizioso per un album forse un po’ folle, magari fuori moda, sicuramente divertente, che cresce ascolto dopo ascolto. Chissà se sarà soltanto un one shot oppure se – in puro stile Hollywood – avrà uno o più sequel.