Martedì 5 dicembre 1995: un intro duro di chitarra deraglia in un violino prepotente, mentre la batteria picchia forte e cerca di prendere il sopravvento. Il momento è catartico, è l’inizio di uno dei brani più amati, pubblicato alcuni anni prima, ma vero centro di gravità dei concerti.
Comincia così Liberty Song dei Levellers, arrivati in Italia a quell’epoca sull’onda del successo dei primi quattro dischi. La folla si scatena e urla insieme al frontman Mark Chadwick quelle parole così liberatorie, quasi uno sfogo alle frustrazioni della vita, ma che nel testo hanno un significato ben più ampio: “…This means nothing to me, the way we were is the way I wanna be…”
“Tutto questo non significa niente per me, voglio tornare come eravamo una volta” è solo il climax delle liriche di una canzone di protesta contro il tentativo di ingabbiare la libertà dato dal capitalismo sfrenato, dove la logica del consumo annienta ogni valore e il potere del denaro soffoca quello di pensiero.
Britannici, formatisi a Brighton nel 1988, prendono il nome proprio dal movimento politico che si costituì durante la guerra civile inglese nel XVII secolo. Hanno fatto loro il motto del filosofo francese anarchico Proudhon il quale, senza mezzi termini esplicitava che “Chiunque metta le proprie mani su di me per governarmi è un usurpatore, un tiranno e lo dichiaro mio nemico”, convogliandolo, però, verso una strenua battaglia contro la guerra e le diseguaglianze, in difesa dei più deboli.
Dopo la timida affermazione di A Weapon Called The World (1990), alcuni cambiamenti della line-up e soprattutto quello di casa discografica, è il momento del folgorante Levelling The Land, uscito nel 1991, dove le influenze punk dei loro idoli Clash -in particolare Joe Strummer- si mischiano al celtic-folk rock creando un ibrido di notevole caratura e originalità che li caratterizzerà fino ai giorni nostri.
Rimane certamente il loro disco di riferimento e materia di questa analisi anche se Zeitgeist, di quattro anni più tardi e legato all’esperienza live ricordata all’inizio, oltre all’intramontabile Mouth to Mouth (1997) rappresentano altrettanto l’apice della carriera per i britannici Jeremy Cunningham, Charlie Heather, Jon Sevink, Simon Friend e Mark Chadwick.
One Way, singolo gettonatissimo e apripista dell’album, è una potente invettiva contro il trionfo dell’abitudine e l’accettazione passiva della vita, la resa incondizionata a ciò che impone la società: la maggior parte di noi tollera tutto questo e così si diventa adulti. Si perdono i sogni, gli slanci e gli entusiasmi si attenuano sempre più nella normalità di un lavoro che si svolge per sopravvivere…
“There’s only one way of Life
And that’s your own.”
“C’è un solo modo in cui tu possa vivere la vita e deve essere proprio tuo”.
Nel testo originale, la A in grassetto è una A cerchiata: simbolo fra i più conosciuti del movimento anarchico e, scorrendo le liriche, si nota un delicato, ma disilluso riferimento alla fine dell’era punk.
“…But the noise we thought would never stop
Died a death as the punks grew up
And we choked on our dreams…”
“Ma il fragore che pensavamo non si sarebbe mai fermato è invece dannatamente scomparso, mentre i punk invecchiavano e noi soffocavamo nei nostri stessi sogni”.
The Game, la traccia seguente, non dà tregua, con la furente frustata di violino ad opera dell’instancabile Sevink, assecondata da una tempesta percussiva del buon Heather. La visionaria The Boatman, con Simon alla voce (capiterà anche nella furiosa Battle of the Beanfield), si ricollega a One way per le tematiche ed è una vera sorpresa dal punto di vista tecnico-stilistico. Infatti, verso il finire, avviene la sua trasformazione da classica ballata folk a “mantra” gotico ancestrale dove, tra fiammate di fiddle e una batteria da rave party, fa capolino il magico didgeridoo suonato dello storico special guest Steve Boakes. Questo strumento a fiato ha un’origine antica, venne utilizzato più di mille anni fa dagli aborigeni australiani e rappresenta per il gruppo un chiaro riferimento a un’era e una popolazione più pura, dove si viveva in simbiosi con la natura. Tale discorso prosegue con la bucolica Far From Home prima della durissima Sell Out guidata dal basso violento di Jeremy e “incendiata” dagli scrosci di chitarra di Simon Friend. L’armonica di quest’ultimo vivacizza due pezzi da novanta di un disco davvero eccelso, diretto, che, se si analizzano con dovizia tutte le sfumature, può ritenersi un concept album vista la similarità e congruenza degli argomenti trattati. Another Man’s Cause è una straziante presa di posizione contro la guerra (in questo caso delle Falklands, ma il significato della canzone è universale) in cui una madre piange la perdita del marito e i due figli senza una ragione, dove trionfano la forza bieca e i motivi incomprensibili di chi comanda.
“How many more are going to answer the call
To fight and die in another country’s war
To die for a religion they never believed in at all
To die in a place they should have never been at all
No never been at all.”
“Quanti ancora risponderanno alla chiamata per combattere e morire nella guerra di un altro paese, a morire per una religione in cui in realtà non hanno mai creduto, a morire in un posto in cui non avrebbero dovuto mai esserci. No, mai esserci assolutamente”.
Il finale dell’opera è incandescente: Battle of the Beanfield rievoca il primo giugno 1985, quando la polizia inglese blocca una lunga carovana pacifica di hippies, antagonisti, anarchici (chiamati anche new travellers) che si dirigevano, come ogni anno, allo “Stonehenge Free Festival” in Wiltshire. Ne scaturirà un conflitto che porterà, nel campo di fagioli adiacente alla strada -da cui appunto il nome della battaglia- a inusitate scene di violenza da parte della forza pubblica contro queste persone e a una massiccia serie di arresti, più di cinquecento, una cifra spaventosa, superata solo all’epoca della seconda guerra mondiale.
La scelta degli strumenti per creare l’atmosfera è da brividi. La batteria tuona colpi a intermittenza precisa, a rappresentare i manganelli che fracassano finestrini, parabrezza e si accaniscono sulla gente, mentre la chitarra simula la corsa dei poliziotti, pronti ad avventarsi su vittime inermi. Il testo, duro, non lascia spazio a dubbi e ben dipinge lo sgomento di fronte a tale uso della forza anche contro donne e bambini. Un passaggio delle liriche, forse perché troppo provocatorio, non viene riportato all’interno del booklet, ma risuona prepotentemente verso il termine della canzone, per non dimenticare: “Bastards, remember what you heard.”
Una chiusura audace per un gruppo che, in trentatré anni di vita, è sempre rimasto fedele ai propri principi, al punto di decidere, dal 2006, di separarsi da una major come Eagle Records per realizzare l’etichetta indipendente On The Fiddle Recordings. Tutto questo al fine di scardinare il sistema di sfruttamento scellerato della loro discografia e terminare il continuo tentativo di influire sulle scelte artistiche della band da parte delle multinazionali.
Sicuramente una lezione di grande coerenza, molto utile come esempio per i tempi nostri, dove a volte basta un singolo di successo per scatenare una propria mercificazione dell’arte, a scapito di qualità e possibile crescita degli stessi musicisti.
Cambiare il mondo e fare la differenza: l’eredità di questo concetto da cui attinge la musica punk sta nel mantenere anche da adulti l’integrità delle convinzioni giovanili.
“The words that you heard when you were young will always stay
The one’s that always stay make the world go away.”
“Le parole che hai ascoltato quando eri giovane rimarranno per sempre, quelle che rimangono sempre permettono di scacciar via da te il mondo”.
Da The Road, traccia 8. Dove il termine mondo viene usato in accezione negativa, visto come impuro, cattivo e in decomposizione per corruzione e inquinamento, non solo ambientale, ma anche degli ideali…