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REVIEWSLE RECENSIONI
Lies They Tell Our Children
Anti Flag
2023  (Spinefarm)
IL DISCO DELLA SETTIMANA PUNK HARDCORE ROCK
7,5/10
all REVIEWS
16/01/2023
Anti Flag
Lies They Tell Our Children
Quante sono le bugie che raccontano ai nostri figli? E quante sono quelle che raccontiamo a noi stessi o che non riconosciamo nemmeno come tali? In un sistema economico dove il profitto è l’unico fine e dove la politica, invece di proteggere i propri cittadini, partecipa sovente alla corsa al guadagno, gli Anti Flag ci ricordano quali sono le ingiustizie alle quali non dovremmo mai abituarci e quali le battaglie che non dovremmo mai dimenticarci di combattere.

«Loro hanno venduto tutti i nostri corpi, hanno collezionato i nostri nomi, venduto tutte le nostre paure e rubato tutte le nostre date di nascita. Ogni nostro pensiero è stato scambiato con un guadagno. Loro hanno venduto tutto. No, tu non significhi un bel niente»

(“Sold Everything”)

 

 

Trent’anni di attivismo e punk, di impegno sociale e ambientale, di scelte vegane e straight edge, di anticapitalismo, antirazzismo e pacifismo, di live incendiari e di album divertenti ma sempre attenti a trapanare le orecchie di chi li ascolta con un appello all’importanza di scendere in battaglia per quegli stessi valori e di combattere insieme contro un sistema ingiusto. Anzi, prima di tutto trent’anni di attenzione all’importanza di conoscerle, quelle battaglie, e di inviti a capire cosa significano; perché al netto dei cori massicci e dei testi che non vanno per il sottile, ogni album degli Anti Flag è sempre stato curato anche nei booklet con un dettaglio persino bibliografico, per dare modo a chi volesse capirne di più di leggersi in autonomia i saggi o i libri da cui loro stessi hanno tratto ispirazione e conoscenza.

Trent’anni di vita randagia in giro per il mondo, dove a Pittsburgh, Pennsylvania, si torna a tour conclusi per stare con le amate fidanzate, gli amici e giocare a hockey non appena possibile, prima di mettere testa e cuore in un nuovo album e passare di nuovo mesi a sensibilizzare giovani e meno giovani di tutto il mondo sulle falle del sistema capitalista e sugli errori che la società non dovrebbe perdonargli, sui problemi che affliggono le persone più fragili e l’ambiente, e su ciò che ogni persona non dovrebbe mai dimenticare di fare: conoscere, provare empatia verso l’altro, non lasciarsi ingabbiare, essere se stessi senza paura, non tacere di fronte alle ingiustizie e metterci del proprio per evitare che vengano perpetrate.

 

Con Lies They Tell Our Children siamo al quattordicesimo album in studio della band, a tre anni dal precedente 20/20 Vision (2020) e a 27 anni dal primo Die for the Government (1996), tutti riguardanti le tematiche sopra esposte con più o meno attenzione ad un frangente o all’altro a seconda delle canzoni, degli album o dei periodi storici (contro la brutalità della polizia, contro il razzismo, contro la politica corrotta, a favore dei diritti di chi protesta ecc.). Potete quindi ben capire come non sia del tutto corretto dare completo credito alla dichiarazione della band per cui questo è il loro “primo concept album”. I temi di cui tratta sono – ahinoi – sempre gli stessi, con urgenze e accenti leggermente diversi da un’annata all’altra, per carità, ma le problematiche negli ultimi trent’anni non sono mai cambiate molto perché il mondo non è cambiato molto. O meglio, è cambiato parecchio, spesso in modo sostanziale, ma i problemi della politica (nel loro caso quasi esclusivamente quella americana), della società e dell’ambiente sono rimasti irrisolti, hanno cambiato forma, sono aumentati, ma non sono granché migliorati. Per cui sì, possiamo dire che gli Anti Flag sono ripetitivi e inneggiano sempre alle stesse cose, e forse pure con troppo ardore, è vero, ma rispetto all’urgenza e alla necessità che queste problematiche vengano prima o poi affrontate dalla politica in modo serio, bisogna ammettere che hanno decisamente ragione loro.

La differenza di approccio nei contenuti in Lies They Tell Our Children può quindi essere osservata più nel taglio prospettico con cui questi sono affrontati e proposti. Tutti i brani partono dalla riflessione sull’origine della maggior parte dei problemi sociali che ci circondano: il profitto e la sua continua, sistemica, ossessiva e pervasiva ricerca. Per soldi si fa tutto e si rinuncia a tutto, si esclude, si discrimina, si sorvola sui diritti umani, personali, sull’etica e sulle libertà reciproche, per i soldi si riordinano le priorità per rendere preferibili quelle economicamente vantaggiose, indipendentemente da ciò che questo potrebbe comportare.

 

Ogni canzone è quindi legata a come diversi dei problemi che la società (americana ma non solo) si trova ad affrontare siano in realtà dovuti ad una mera questione di profitto. “Modern Meta Medicine”, ad esempio, usa la metafora dell’abuso di farmaci a cui la società statunitense è soggetta per parlare della dipendenza da desideri continui di acquisto e consumo che il mercato ci impone («Come pagheremo? Siamo la merce. Non possiamo mai fare a meno di noi stessi. Vogliamo tutto e nient’altro. Pianificare il mercato, consumare, comprare tutto. Creare desideri e scambiarli pubblicamente. Il dolce profumo del nostro eccesso. Soffochiamo e ci imbavagliamo per il fetore»). Mentre “Laugh. Cry. Smile. Die.” narra delle finzioni che viviamo, di quelle che raccontano ai nostri figli e che facciamo nostre, di come la verità possa diventare opinione o finzione, e di come la realtà possa essere semplificata tanto da diventare un bene di consumo lei stessa («Nella fluorescenza delle sale riunioni, la prova scompare. Nell’oscurità della notte, si approfittano delle nostre paure»).

“Imperialism”, dal canto suo, rispetto ai toni più velenosi e barricadieri utilizzati di norma dalla band, affronta invece il tema dell’imperialismo (e quindi della volontà e facoltà da parte di uno stato di estendere il proprio dominio su territori sempre più vasti, con l’obiettivo di conseguire un predominio egemonico politico, economico e culturale sulle nazioni meno sviluppate) con un taglio molto particolare e innegabilmente acuto. Tutto è infatti giocato su una metafora semplice ma perfettamente calzante e rappresentativa, sintetizzabile in questa domanda: cosa penseresti di qualcuno che viene da te, ti ruba tutti i gioielli e le ricchezze, si trasferisce d’impero a casa tua, ti circuisce tanto da portarti quasi a chiedergli di rimanere, cercando di convincerti che in fondo siete amici, ti è utile e hai bisogno di lui, e poi decide di non andarsene mai?

 

 

Stabiliti i contenuti di Lies They Tell Our Children, ciò che rimane è come questi siano veicolati, il che genera un dibattito più aperto. Questo perché non sempre la riproposizione di cori e inni rivoluzionari funziona sempre; spesso ha più presa sui ragazzi che incontrano per la prima volta queste lotte, facilitando la loro sensibilizzazione o conversione alla causa, o predica ai già convertiti, che seguono questi temi con ardore già da tempo, mentre difficilmente parla agli scettici, ai placidi o a chi avrebbe davvero bisogno di ascoltare il messaggio che si cerca di portare alla luce.

A livello di varietà o complessità musicale, invece, stiamo pur sempre parlando di punk rock o hardcore melodico approssimativamente anni Novanta inizio anni Duemila, con un’identità forte, ben radicato nelle sue strutture e modalità espressive: non si può ascoltare un disco degli Anti Flag e attendersi grosse variazioni di stile. Il loro suono e il loro modo di costruire le canzoni è più o meno sempre quello: se piace piacerà sempre, se non piace difficilmente si cambierà idea. Uno schema tutto sommato ricorsivo si può però eseguire bene o male, e il risultato può essere più o meno riuscito, accattivante o mediocre.

A questo riguardo, infatti, qualche preoccupazione prima dell’uscita dell’album c’era; rispetto ai primi dischi la band è diventata melodicamente più morbida, anche se più consapevole dei propri mezzi comunicativi, tanto che il timore, dopo il precedente 20/20 Vision, era quasi che potessero diventare un po' troppo rock e mainstream. Lies They Tell Our Children, invece, spazza via ogni dubbio, dimostrandosi un ottimo album: potente e diretto nell’intento e nei temi (e molto spesso anche nel tiro delle canzoni), orecchiabile, carico e anthemico nella proposizione di inni, cori e ritornelli (che dopo pochi ascolti entrano facilmente in testa), oltre che molto fedele allo spirito dei loro live: gioiosi, divertenti, comunitari, socialmente e politicamente impegnati e dal pervasivo effetto sing along.

Come novità però, le quali si riflettono anche nella varietà dei suoni, degli stili e dei colori dei brani, troviamo una modalità di esecuzione inedita, che prendere la forma di una quantità di featuring mai vista. Delle 11 tracce del disco, ben 7 vedono come ospiti 8 amici illustri, storici artisti della scena punk giunti per unire la propria voce e la propria arte alle cause presentate, oltre che per manifestare un segno d’amicizia e sostegno nei confronti della band alla luce di un traguardo così importante. Nella potente “Modern Meta Medicine” troviamo Jesse Leach dei Killswitch Engage, nella ottima “Laugh. Cry. Smile. Die.” il talentuoso Shane Told dei Silverstein, nella trascinante “Imperialism” la brava Ashrita Kumar dei Pinkshift, in “NVREVR” Stacy Dee delle Bad Cop/Bad Cop, in “Shallow Graves” Tré Burt, nella meno riuscita “Victory or Death (We Gave ‘em Hell)” la partecipazione di Campino dei Die Toten Hosen e nella bella “The Fight of Our Lives” una doppietta d’eccezione: Tim McIlrath dei Rise Against (in quello che è quasi un piccolo ritorno ai bei tempi di The Sufferer & the Witness) e Brian Baker dei Bad Religion per il migliore assolo del disco.

 

Con Lies They Tell Our Children gli Anti Flag non hanno rivoluzionato le sorti del punk o realizzato un album perfetto, ma hanno dimostrato ancora una volta quanto la coerenza nei propri valori, l’impegno, la capacità di fare il proprio mestiere con dedizione e la passione possano fare la differenza, permettendo ad una band che calca le scene da tre decenni di poter ancora dire qualcosa. Di poterlo dire nei modi, tradizionali ma solidi, ma soprattutto di saperlo dire nei contenuti, perché la capacità e il coraggio di comunicare certe tematiche e la coerenza nel conoscere certe battaglie e nel viverle davvero non è sempre così diffusa, in un modo dove l’apparenza viene troppo spesso confusa o sovrastimata rispetto alla sostanza.

Gli Anti Flag si confermano un caposaldo di quel punk rock/hardcore melodico socialmente e politicamente impegnato che forse non sarà più di moda e verrà seguito da sempre meno gente o da persone con sempre più anni sulle spalle (anche se ci auguriamo che ancora qualche adolescente possa provare il brivido di crescere con questo tipo di retaggio nel cuore), ma che rimane una piccola certezza, gestita da artisti che lavorano ancora con energia e caparbietà nella realizzazione loro missione. Perché avere come obiettivo “che la musica e l'arte possano cambiare le persone, e che quelle persone possono cambiare il fottuto mondo”, come ama dire l’inarrestabile Chris #2, magari sarà anche utopico o difficile, ma basta averlo raggiunto con pochissime persone, forse anche con una sola, per aver trovato il senso di un album o di un’intera carriera.