La dichiarazione d’intenti della band ligure per descrivere il proprio sophomore (“Abbiamo cercato di fare musica pop che non risultasse banale”) può esserci utile per capire che tipo di disco abbiamo di fronte, a patto di riuscire ad intenderci su cosa significhi l’aggettivo “banale”. Perché se è vero che è impossibile oggi andare a cercare qualcosa di “mai sentito”, il modo di assemblare il proprio materiale e di fare interagire tra loro influenze il più possibile eterogenee, può già rappresentare una non scontata volontà di ricerca.
“Tutti abbiamo qualcosa dentro di noi che si rivela attraverso l’arte. Questa è la nostra strada”. Strada parecchio tortuosa, quella intrapresa per Like I Need Tension. Tensione, appunto. Parola chiave per decifrare un lavoro che tutto chiede tranne che l’accomodamento e che si diverte a complicare le strutture, non tanto nella volontà di stupire, quanto dell’esigenza di intraprendere un cammino realmente sentito come proprio.
Il precedente In Her Bones, che era uscito nel 2019 per Factory Flaws, si muoveva già in questa direzione, col suo modo tutto particolare di ripensare l’Alt Folk, ma l’impressione è che qui ci si sia spinti decisamente oltre.
Probabilmente è dipeso dal modo particolare con cui hanno cominciato a mettere assieme questo materiale, a partire da uno scambio via mail delle varie idee; un metodo che certamente ha favorito l’accostamento di elementi eterogenei e che ha posto le basi per quando, terminato il periodo del lockdown, si sono visti Tutti assieme in provincia di Alessandria, all’interno di un fienile convertito in studio, e hanno dato forma a queste otto canzoni, rielaborando le idee all’insegna della spontaneità e del libero fluire.
Eugenia Fera (voce), Matteo Traverso (basso), Giovanni Marini (chitarra e tastiere) e Matteo Gherardi Vignolo (batteria), provengono da background diversi, e mai come ora hanno deciso di renderlo evidente: nell’arco della mezz’ora scarsa che dura il disco, infilano una successione di brani dove non esistono regole, che partono dall’Indie Folk degli esordi per poi muoversi tra Jazz e Afrobeat, suggestioni caraibiche e geometrie chitarristiche à la Radiohead. Ne scaturisce un lavoro complesso, a tratti forse troppo, dove c’è uno spunto nuovo ogni due secondi e dove occorre tenere l’attenzione desta al massimo se non si vuole correre il rischio di smarrirsi. Vario anche il campionario di strumenti utilizzato, con le chitarre che dialogano coi Synth, i fiati che non hanno nessun timore di accostarsi al vocoder.
Un disco senza dubbio ardito, non per tutti, ma che mette in chiaro come gli Eugenia Post Meridiem siano ben sopra la media di quel che gira al momento in Italia, e possano senza dubbio ambire a più ampie platee internazionali (le hanno già toccate in passato, ma solo di striscio).
Tenete d’occhio quando arriveranno nella vostra città (c’è già un tour fissato) perché credo non ci sia niente di meglio che ascoltare questo disco dal vivo.