Nato a Milano, mi piace leggere romanzi gialli ambientati a Milano.
Però qui trovo un limite qualitativo invalicabile: Giorgio Scerbanenco.
Scrittore che resta geniale con le sue storie (siano esse racconti o romanzi), ma che pesa come un albatross al collo di ogni altro autore.
Basti notare la “schiavitù del calibro .9”: dall’illustre Piero Colaprico, con il suo libro-inchiesta che appunto mutua dal titolo della raccolta di racconti datata 1969, a Paolo Roversi che ne fa titolo di capitolo nel suo romanzo del 2009 (entrambi senza il “.” a precedere il 9, avrebbe osservato criticamente Jean-Patrick Manchette).
Il protagonista lo si ricerca sempre poliziotto, ma non troppo, con il risultato che Hans Tuzzi alla fine per distinguersi dagli scerbanenchiani diventa epigono di Renato Olivieri (con il suo Commissario Ambrosio a suo modo versione maigretiana di Lamberti?).
Altrimenti, il riferimento diventa Alan Altieri con il romanzo L’uomo esterno e con le storie del poliziotto Andrea Calarno, ma allora si ripiega su Milano co-protagonista: sempre nella visuale di chi preferisce ammazzare di prefestivo, sebbene il sangue sia più da periferia di gusto manchettiano e con Zamberletti quasi emulo di Altieri nell’amore per il calibro parabellico e ad alta penetrazione (e qui ovviamente anche le “storie di gangland” de Il Professionista di Stephen Gunn sono da rammentare), e pur se con locali notturni dove si sente la mancanza almeno delle braccia da fuoco delle “batterie” del Bel Renè o di Faccia d’Angelo.
La spiegazione, però, può essere ritrovata non in chi scrive, ma in ciò che di cui si scrive: Milano non è cambiata molto in otto lustri.
Le tre linee di metropolitana non la rendono più europea della sola linea rossa presente negli scorsi anni sessanta; al contrario sono le due attualmente mancanti che la inchiodano, insieme al resto che non c’è, in una dimensione marginale mentre altre città sono cresciute.
Qualche grattacielo in più, finalmente, non la avvicina a una City davvero bifronte come quella londinese.
Assente un fiume che attraversi il capoluogo lombardo.
Ecco quindi che è la città a contribuire a forgiare sempre a sua immagine e somiglianza i personaggi, sebbene in modo quasi perverso essa sia oggi provinciale: senza una sala da tè Alemagna in Via Manzoni, con gli edifici che sono diventati più bassi come le persone quando invecchiano, e il gusto necrofilo per il restauro a tutti i costi anziché la costruzione del nuovo quando ne valga la pena.
Al contempo il mancato rispetto per le tradizioni è concausa: così lo scempio di un Savini dove le sorelle Angela e Luciana Giussani oggi non andrebbero più a pranzare a Ferragosto (e poi due film nel pomeriggio nel solo giorno di riposo delle mamme di Diabolik).
Quindi, a parte l’eccezionalità dell’Autore di Kiev nel costruire trame e storie, è la difficoltà di trovare una Milano come quella in cui si muovevano i personaggi di Scerbanenco a rendere nostalgici i suoi, più o meno volontari e desiderosi, eredi. Autori i quali spesso, significativamente, trovano materiale nei già ricordati anni di piombo e da bere: negativi sì, ma certamente anche più stimolanti. Diversamente si deve andare nell’apocalittico e qui ancora Altieri docet.