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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
31/07/2023
Little Village
Little Village
Si dice che in genere il tempo sia galantuomo. Lo è certamente se si riascolta, a poco più di trent’anni dall’uscita, il lavoro di questo supergruppo, all’epoca snobbato e visto più come un esercizio di stile. Undici canzoni ispirate e ben suonate, un viaggio nel cuore del ritmo, della musica e della poesia da parte di quattro artisti amici, uniti nel percorso e profondamente ispirati.

“Eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo…”

 

Sì, il periodo in cui viene composto, ideato e registrato Little Village è proprio quello della famosa canzone citata: ma questi quattro amici non intendono mutare le vicissitudini dell’universo (in realtà non vi riusciranno nemmeno i personaggi di Gino Paoli), ma semplicemente colorarlo di bellezza con brani spumeggianti, con l’entusiasmo che già alcuni anni prima aveva fatto loro unire le forze per il progetto solistico di uno del quartetto, Bring the Family. Tuttavia, perlomeno il mondo musicale, riceve una piccola scossa da un supergruppo davvero notevole, eterogeneo il giusto e con alcuni punti in comune, o, forse, per meglio dire, ben assortito.

Ry Cooder, John Hiatt, Nick Lowe e Jim Keltner, bastano solo i nomi a far capire l’altissimo livello. Tre compositori raffinati, il primo dei quali re della slide e leggenda del rock blues, insieme a due eleganti songwriter strettamente a contatto con la parte bella e meno commerciale del pop. Infine, il batterista e percussionista che qualunque superstar vorrebbe, un uomo che ha suonato con chiunque, da David Crosby e Jackson Browne a Beth Orton e Lana Del Rey, da B.B. King, Bob Dylan, John Lennon, George Harrison, Leonard Cohen e Neil Young a Rob Thomas, lasciando la sua impronta su centinaia di dischi diventati best seller, ma soprattutto immortali come For Everyman, Living in the Material World e Time Out of Mind. Ecco così formati i Little Village, quattro leggende unite per sfornare il disco omonimo.

 

L’espressività poetica e spontanea, la creatività libera e non stereotipata sguazzano come pesciolini felici in un laghetto d’alta montagna durante la brillante opener "Solar Sex Panel", canzone d’amore “ecologica” nonché divertente analisi sulle virtù acquisite in caso di calvizie, nella blueseggiante "Inside Job" e in "Big Love", fascinoso roots rock intriso di gospel, tutte invenzioni partorite principalmente dalla straordinaria mente compositiva di Hiatt: mentre Cooder si destreggia tra mandolino e chitarra, Lowe non fa mancare il suo basso puntuale oltre ai vocalizzi d’accompagnamento e “Mr.Metronomo” Keltner non perde un colpo. Ogni composizione, però, non si nutre di un solo autore, accorpa suggerimenti e intuizioni di ogni musicista.

 

“Non avevo mai creato una cosa del genere prima di tale progetto. Inoltre, non credevo nemmeno che si potesse fare, trovarmi in una stanza con altri tre ragazzi e dire «Bene, iniziamo». E pian piano qualcosa viene fuori. Qualcuno aveva in testa un titolo, qualcun altro un riff. Le idee sono arrivate da ogni tipo di angolazione e luogo".

 

Si tratta solo di un breve estratto dell’intervista entusiastica rilasciata al Washington Post da Lowe nel 1992, prima di partire per un tour che avrebbe toccato l’Europa e pure l’Italia; tecnica, estro e capacità improvvisative lasciano stupefatti gli spettatori, accorsi in gran numero ad assistere alle performance del supergruppo. Anche nel disco si avvertono la naturalezza e l’empatia scorrere liete durante i brani. All’epoca dell’uscita del lavoro le recensioni non sono state completamente entusiastiche, accanto ad alcune positive ne sono giunte altre meno accondiscendenti, non si è comunque mai discusso il talento degli artisti, piuttosto la mancanza di pezzi memorabili. Tuttavia ascoltare "The Action", narrazione di un luogo ove la gente trova sempre un motivo per seguire la propria passione, con Cooder insolitamente leader vocale in modo molto appassionato e con un guitar solo sorprendente di Hiatt, "Take Another Look" e "Don’t Go Away Mad" in cui si sprigiona rispettivamente l’inventiva di Lowe e Keltner, è davvero un piacere per le orecchie; il tempo ha restituito quanto ingiustamente tolto all momento dell’uscita, lasciando anche il rammarico per un progetto che poteva durare di più.

Merita ancora un plauso Jim Keltner, per una volta nell’insolito ruolo di compositore: per anni il più grande “stickman” del rock ha esplorato la tecnologia del campionamento, sovrapponendo pezzi di chitarra digitalizzati a ritmi vorticosi per creare un terriccio fertile che viene chiamato "guitar compost" nelle note di copertina del disco. Collaboratori meno esperti avrebbero potuto trovare scoraggianti le eccentriche elaborazioni del batterista, invece i tre compari hanno appoggiato senza il minimo dubbio la sua sperimentazione, plasmando il materiale con il loro e aggiungendo la propria esperienza storica di songwriting, ottenendo un risultato unico ed eccezionale.

 

"Don't Go Away Mad è un piccolo esperimento realizzato con alcuni campioni di chitarra dal sound smielato messi insieme con effetti sonori, gong e altro, in questo strano formato. L'ho suonata per Ry, che l'ha apprezzata, e l'ho inviata a Hiatt, il quale ha perfezionato il testo e una melodia con il piano elettrico sopra la mia struttura di accordi. Penso sia venuto bene. La mia scrittura a volte confonde la gente. Ma questi ragazzi possono trasformare le mie piccole idee in canzoni complete. Sanno esattamente cosa fare”. (Jim Keltner)

 

Chiamiamola scrittura collettiva, che raggiunge l’apice nella sarcastica "Do You Want My Job", dalle intriganti sonorità a tinte caraibiche, e nella possente "She Runs Hot", un rovente tex-mex con battute indimenticabili tipo “She's chilly as a Tastee-Freeze”, “è fredda come un gustoso gelo”. Parole che sicuramente giungono dall’inventiva cantautoriale dello scafato Hiatt, abile a giocare con le liriche come un gatto con il topo. "Fool Who Knows" nasce invece principalmente dalla genialità e dalla penna affilata di Nick Lowe ed evidenzia l’incredibile vitalità di Ry Cooder, un virtuoso che sa davvero far urlare le corde e non ha timore a liberare le note nell’aria stillandone fino all’ultima goccia di suono, con assoli dinamici ed espressivi in termini emozionali.

 

La chiusura dell’opera non perde un centesimo del suo valore con la meravigliosa "Don’t Think About Her When You’re Trying To Drive", sviluppatasi e strutturatasi come ballata malinconica semplicemente da un titolo di fantasia frullato nella testa di Cooder. "Don’t Bug Me When I’m Working" è la traccia conclusiva e questa frase rimbalza al pari di un mantra oppressivo in tutto il pezzo, che inoltre fa comprendere la scelta del gruppo di chiamarsi Little Village. La parte musicale, naturalmente, è stravagante ma contagiosa, e verso il termine incorpora l'audio di Sonny Boy Williamson II che urla a Leonard Chess: "Piccolo villaggio, figlio di puttana! Piccolo villaggio!".

Quello scambio (apparentemente acceso per orecchie vergini, ma solo un altro giorno di lavoro per i presenti, abituati alle uscite dell’istrionico bluesman) sebbene registrato nel settembre del 1957, non vede la luce fino al 1969 (dopo che sia Williamson sia Leonard Chess avevano lasciato questo mondo), quando viene pubblicato in una versione di quasi dodici minuti, completa di false partenze e di tutte le chiacchiere tra una ripresa e l'altra, nella fantastica raccolta Bummer Road. Una copia dell’album, e in particolare del brano "Little Village", arriva alle orecchie dei quattro “ragazzi” e dell'allora presidente della Warner Brothers Lenny Waronker, ed ecco scelto il nome ufficiale della band, con tanto di campionamento della voce di Sonny Boy. Un modo divertente, ma anche rispettoso e onesto per evidenziare le origini, le fondamenta da cui Cooder, Hiatt, Lowe e Keltner hanno costruito le loro brillanti carriere: il blues, quello sofferto, combattuto, fonte eterna di ispirazione, speranza e voglia di vivere, nonostante le avversità.