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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
19/04/2022
Freddie King
Live in Europe-Hamburg & Bremen 1975
C’era una volta un Re, un Re della chitarra, che ha appassionato e fatto innamorare dello strumento un numero indescrivibile di ragazzi, alcuni diventati poi incredibili musicisti virtuosi grazie al suo esempio. Dal trio delle meraviglie Beck, Clapton, Page ai fratelli Vaughan e Robben Ford, passando per gruppi fedeli al blues come Led Zeppelin e Allman Brothers Band, fino a band quasi insospettabili come Grand Funk Railroad e Creedence Clearwater Revival. Tutti, e parecchi altri, solo per lui, l’inimitabile Freddie King, impeccabile in studio e poderoso “on stage”. Riviviamo proprio uno dei suoi ultimi live, durante il tour in Europa del 1975, per non dimenticare una storia di fatica e sacrifici, che l’ha portato a essere un riferimento per chiunque abbia deciso di avventurarsi nel mondo delle sei corde.

“Crescendo e addentrandoci sempre più nel blues io e Stevie ascoltavamo la musica come se stessimo facendo i compiti. Prendevamo un disco di Freddie King e vedevamo nelle note di copertina che al bluesman piacevano Jimmie Rodgers ed Eddie Taylor, pertanto compravamo i loro album e così via. Era uno studiare continuo…E Freddie è stato uno dei maestri: ci ha insegnato a suonare in modo immediato, deve venire direttamente dalla tua testa, è qualcosa di spirituale, si tratta di imparare ad avere fiducia nel proprio istinto”. (Jimmie Vaughan)

 

Quanta vita, quanta storia dentro a un disco. Dal modo in cui è confezionato, all’artwork, agli eventuali testi scelti per presentarlo, fino, ovviamente, alla musica, spesso sinonimo di lacrime, sudore e sangue. Tutto questo vale certamente per “Texas Cannonball” Freddie King, il “gigante buono”, uno dei tre King of the Guitar. Un gigante in tutti i sensi, con i suoi due metri e 135 chili di peso e l’ incredibile voce, a tratti quasi spaventosa per veemenza, ma soprattutto per quell’intenso feeling creato suonando la chitarra, come se il mondo per un istante si fermasse ad udire solo i suoi fraseggi, la nota di partenza alterata fino a portarla a una d’arrivo più alta, sospesa, tirata, “piegata” in un virtuosismo unico e innato, che ha ispirato e spinto a prendere in mano uno strumento intere generazioni di giovincelli, i quali hanno trovato una ragione di esistenza proprio nella sei corde e nell’arte di imparare a “domarla”.

Freddie nasce nel 1934 a Gilmer, uno sperduto paesino nel cuore dell’East Texas che darà anche i natali a Don Henley, e già a partire da sei anni adora il ritmo del blues rurale, affascinato dall’epico Lightnin’ Hopkins. Giorno dopo giorno le sue capacità crescono e il “piccolo” eroe riesce a riprodurre perfettamente nota per nota, con la sua Silvertone acustica, gli arrangiamenti dei fiati presenti sugli LP di Luis Jordan. Il ragazzo è caparbio e, poco più che adolescente, va a scuola e poi lavora senza sosta, raccogliendo cotone e raggiungendo velocemente la somma necessaria per comprarsi una chitarra migliore, come quella di Roy Rogers. Il trasferimento del 1949 con i parenti e fidanzatina a Chicago rappresenta per lui un sogno diventato realtà, adesso è a contatto con Muddy Waters, Elmore James e soprattutto Howlin’ Wolf, che lo prende sotto la sua ala e gli dà lezioni di vita, oltre che musicali, su come ad esempio sopravvivere nei vicoli più pericolosi della Windy City. Tre anni dopo avviene il matrimonio con l’amata Jessie, musa ispiratrice e coautrice di alcune sue composizioni, un fatto che lo responsabilizza: di giorno è impegnato in acciaieria e porta a casa uno stipendio sicuro, mentre la notte è il momento delle speranze e aspirazioni, quindi Cannonball non perde un colpo, districandosi tra i club della southside e quelli della westside. Le sue esperienze proseguono, rapportandosi con Memphis Slim e Magic Sam, e giungono i primi accordi con le case discografiche, ma pure i continui rifiuti della storica Chess, che, inaspettatamente e ingiustamente, lo considera un clone dell’altro King, B.B.. Non tutto il male viene per nuocere, infatti Freddie non si perde d’animo, considera la mancata accettazione come uno stimolo per fare meglio e si mette in partnership con il pianista talent scout Sonny Thompson. Il sodalizio funziona, il duo confeziona alcune pietre miliari del genere, da "Hideaway" e "Tore Down" a "Someday After a While", e incide per l’etichetta King/Federal.

 

Ora la vita gli sorride, il successo è raggiunto, e nei primi sessanta l’artista primeggia a livello nazionale, viaggiando ed esibendosi con star del calibro di Sam Cooke, Jackie Wilson e James Brown. Gli unici infelici sono la moglie e i sei trascurati figli, che decidono di tornare in Texas, precisamente a Dallas. Freddie capisce che non può stare senza di loro, fa le valigie e riparte verso il posto dove tutto era iniziato. Seguono stagioni di alti e bassi, con altri contratti e contatti discografici, una maggiore attenzione a migliorare la tecnica vocale virando a tratti su territori soul/funky, e anche un nuovo apice grazie a un tour europeo nel 1968, con mirabolanti show in Inghilterra che gli fanno capire quanto sia amato pure da Mick Taylor e Peter Green. Un giovane manager, Jack Calmes, in seguito brillante inventore di straordinari sistemi per l’illuminazione durante i concerti, inizia a collaborare con lui e lo indirizza alla Shelter Records di Leon Russell. L’album seguente, Getting Ready, pilotato dalla hit "Going Down", brilla per gli accecanti assoli di Gibson e per il confortante ritorno al blues, contornato da vampate rock. Vengono pubblicati due altri lavori prima di passare alla RSO, acclamato e voluto da Clapton, con cui rafforza l’amicizia grazie all’intensa attività dal vivo, spesso aprendo proprio per Slowhand. Burglar (1974) e Larger Than Life (1975) nascono in tal eccitante periodo, che vede King ancora in forma strepitosa in giro per il mondo  e questo Live in Europe ne è manifesto sgargiante.

La scaletta è ricca di classici del suo repertorio, insaporita dall’imprevedibilità di un artista che varia i pezzi ogni sera, arricchendoli di nuove strutture melodiche negli assoli e, soprattutto, non interpretandoli mai nella stessa maniera. Tutto ciò si palesa subito nella storica "Sweet Home Chicago", che Robert Johnson incise per primo nel 1937, qui in medley con Ghetto Woman, e nella potente "Have You Ever Loved a Woman", scritta per lui da Billy Myles, vero e proprio cavallo di battaglia durante la carriera, interpretata in modo eloquente, lacrimosa, sudata e sofferta: è sconvolgente quanto trasmetta con furore quello che si potrebbe provare se si fosse innamorati della moglie del proprio migliore amico. Per l’intero show l’epico bluesman suona con un’intensità capace di agganciare il pubblico, sa essere intrattenitore d’altri tempi e a colpi di “Can you hear me??” carica a dovere la folla, inebriata da tanto virtuosismo, e infervora pure il gruppo, dove il prodigioso Lewis Stephens strapazza il piano tarantolato, con una devozione sconvolgente, ed Edd Lively, chitarrista ritmico nato per decorare con tocchi cesellati gli standard del genere, non sbaglia un colpo. Inoltre una ficcante "The Moon Is Rising" e la torrida "It Ain’t Nobody’s Business" sono l’occasione per evidenziare il groove creato dal basso di Benny Turner e la batteria dell’estroso Caleb Emphrey Jr.: insomma qui si parla di una “sceneggiatura musicale” praticamente senza sbavature, che non disdegna l’improvvisazione e dona tutto il calore atteso aggiungendo una nota di blue, di malinconia e facendo brillare di luce avvolgente e magnetica persino le piccole imperfezioni della performance, proprio come quando si assiste a un’esibizione ad un passo dal palco e si percepisce tutta l’empatia dell’ensemble.

"Big Legged Woman, Woman Across The River" dall’omonimo album del 1973, brano amatissimo dall’Allman Brothers Band, e lo standard "Key To The Highway" denotano perfettamente lo stile di Freddie King,  il tono muscoloso della sua chitarra, la voce “viscerale” e grandiosa.  Emerge pure l’importanza data all’organo, qui magistralmente accarezzato da Alvin Hemphil, nell’impalcatura delle performance dal vivo, e il trascinante finale evidenzia ancora una volta in modo inequivocabile quanto alcuni musicisti influenzarono il “gigante buono” in gioventù. "Let The Good Times Roll" riporta ai ricordi d’infanzia del già citato Louis Jordan, il cui blues a dodici battute mid-tempo viene stravolto in un’irresistibile cavalcata R&B di otto minuti, mentre "Stormy Monday" è un tributo ad un altro ispiratore, il vulcanico T-Bone Walker.

 

Non sempre le storie hanno un lieto fine: in un periodo di intensa attività, con più di trecento date all’anno e una maturità artistica raggiunta grazie a un estremo sacrificio, King è costretto a pagare dazio per una serie di acciacchi fisici. La vita “on the road” non è semplice e appesantisce ulteriormente corpo e spirito del chitarrista: dense nubi coprono l’orizzonte della sua salute; una tremenda ulcera, la pancreatite acuta lo debilitano e in seguito un infarto gli è fatale. Freddie abbandona questo mondo il 28 Dicembre del 1976 lasciando sgomenti migliaia di fan e amici musicisti che avevano riconosciuto in lui una forza, un esempio, una tenacia incredibile con un amore per il blues indescrivibile, scolpito nel suo DNA. Ad ogni modo a partire dall’addio terreno l’affetto per il mitico chitarrista muta, ma non finisce: nel ’93 la governatrice del Texas Ann Richards proclama il Freddie King Day ogni 3 Settembre, data del suo compleanno, e dieci anni dopo il magazine Rolling Stone lo inserisce al venticinquesimo posto nella classifica dei “Guitar Hero”. Indimenticato e Indimenticabile.

 

“La chitarra di King, il suo ‘bending’ viscerale in ‘I Love the Woman’ del 1961 e poi, tre anni dopo, la profonda interpretazione di ‘Now I’ve Got a Woman’, mi hanno mandato in una specie di estasi totale, anche se in realtà mi hanno spaventato a morte. Non avevo mai sentito niente di simile, e pensai che non sarei mai riuscito ad avvicinarmi a una bravura del genere”.  (Eric Clapton)

 

“Era un uomo grande e grosso venuto dal Texas e suonava una chitarra ancora più gigantesca/ Era il re dei re, nato per essere una superstar” (Estratto della canzone di John Mayall “King Of The Kings” dal disco In the Palace of the King, tributo a Freddie King pubblicato nel 2007)