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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
01/10/2019
We Were Promised Jetpacks
Live Report - 28 Settembre 2019, Circolo Ohibò, Milano
I nostri salgono sul palco pochissimi minuti dopo le 22, con una puntualità che non possiamo fare a meno di apprezzare. Immediatamente il boato che li accoglie è quello delle grandi occasioni ma anche di un ritrovo tra amici, di gente che è felice di rincontrarsi dopo tanti anni.

Questi anni saranno forse ricordati per l'incessante mania delle revocazioni e delle retrospettive a tutti i costi, per la nostalgia celebrativa a suon di edizioni deluxe e concerti ad hoc, per le classifiche del decennio, del secolo, del millennio passato.

E poi ancora una volta, essere lì ad esclamare: “Ma è già passato così tanto tempo?”, noncuranti dell'effetto da bieco luogo comune che una simile frase immancabilmente genera.

Tant'è. Sono tempi strani per la musica e non tocca a noi comprenderli, anche perché c’è già fin troppo da vivere, mi sembra.

Fa comunque un certo effetto che anche i We Were Promised Jetpacks si siano messi a celebrare il passato. Esito obbligato, se ci si riflette bene, per una band che ha nel proprio monicker l'incarnazione stessa della fine del futuro, almeno di quello fantascientifico e ultra tecnologico che ci immaginavamo da piccoli.

“These Four Walls” usciva proprio 10 anni fa, il 15 giugno per l’esattezza e da quest'estate il quartetto scozzese è in giro a suonarlo per intero, prima negli Stati Uniti e adesso in Europa.

Il loro album migliore? Per chi scrive senza dubbio, dato che nei passi successivi, pur scrivendo cose pregevoli (soprattutto il successivo “In the Pit of the Stomach”, che si assesta bene o male sullo stesso livello del debutto) non sono più riusciti a replicare la rabbia, l'irruenza e, perché no, anche l’ingenuità di quelle undici tracce.

Un disco che, a suo modo, è un piccolo classico dell'Indie Rock del nuovo millennio, molto derivativo nell’impianto di scrittura (si sente tantissimo un certo revival Post Punk, con atmosfere simili a quanto fatto dai loro connazionali Twilight Sad ma anche un uso delle chitarre e della voce che a tratti richiama i primissimi U2) ma ispirato in ogni singola nota; un disco che ha anche ricevuto un certo riscontro commerciale, se si pensa alle ospitate nella colonna sonora di un paio di serie TV di successo (“One Tree Hill” e “Sons of Anarchy”).

L'Ohibò è gremito, quando arrivo i Weakened Friends hanno già terminato il loro set e quindi non ho modo di parlarne (anche se, dalle impressioni raccolte in giro, pare se la siano cavata egregiamente).

I nostri salgono sul palco pochissimi minuti dopo le 22, con una puntualità che non possiamo fare a meno di apprezzare. Immediatamente il boato che li accoglie è quello delle grandi occasioni ma anche di un ritrovo tra amici, di gente che è felice di rincontrarsi dopo tanti anni.

Adam Thompson illustra il programma della serata, vale a dire “These Four Walls” dall'inizio alla fine e una manciata di canzoni dal repertorio successivo. Lo sanno già tutti, ovviamente, ma il grido di esultanza è comunque altissimo.

Quando parte l'arpeggio di “It's Thunder and It's Lightning” il singalong è incredibile, ancora di più quando entrano distorsione e batteria e il brano assume quelle tinte Emo Core che caratterizzano fortemente gran parte dei brani di questo lavoro.

Su “Ships With Holes WIl Sink”, “Roll Up Your Sleeves” e soprattutto “Quiet Little Voices” si urla e si poga all'impazzata, la distanza tra pubblico e band quasi del tutto azzerata, il locale divenuto una fornace, il sudore che cola e

l'atmosfera che diventa sempre più incandescente di minuto in minuto; più che un concerto, una celebrazione collettiva dove tutti sono protagonisti, dove ciascuno dei presenti è parte di qualcosa.

Nonostante il contesto, la prestazione della band non è pasticciata, anzi. Il suono è nitido quanto esplosivo e la resa dei pezzi magnifica, con un Darren Lackie assolutamente mostruoso dietro la batteria, Adam Thompson che urla come un pazzo senza che questo vada a discapito dell'esecuzione, dovutamente spalleggiato da Michael Palmer e Sean Smith, più compassati degli altri due (il primo, defilato sulla sinistra, sembra quasi vivere uno show tutto suo) ma entrambi decisamente efficaci.

Ne risulta un'ora dove potenza e melodia si sposano alla perfezione, un disco che ci viene ributtato nelle orecchie con convinzione e sul cui status non nutriamo assolutamente nessun dubbio.

La seconda parte è meno violenta ma sempre molto bella, con due episodi dell’ultimo disco come “Hanging In” e la sfuriata Post Punk di “Repeating Patterns” e pezzi più lunghi e di atmosfera, che vivono soprattutto di accordi ripetuti con costante ossessione (“Sore Thumb”, “Pear Tree”).

Considerato che era da cinque anni che non tornavano in Italia, è andata decisamente bene. Nell'attesa di un nuovo disco che ce li riporti alla dimensione del presente, questo è stato un ottimo concerto.


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