I Live Skull non hanno avuto il successo di pubblico di Swans e Sonic Youth, le due band ai quali sono più spesso accostati, e il loro nome suona oggi significativo solamente agli ascoltatori più esperti. Ma se i riscontri commerciali non sono l’unico parametro per definire il valore di un act, allora il quartetto newyorchese può entrare a tutta forza nei grandi che hanno portato la frangia più rumorosa e sperimentale del rock ai suoi massimi livelli.
Nel nostro paese poi, Mark C. e compagni dovrebbero godere di qualche attenzione in più: la loro reunion, arrivata dopo trent’anni di silenzio a dare un seguito all’ultimo disco Positraction, è infatti avvenuta all’insegna della ravennate Bronson Recordings, tra le etichette indipendenti più attive e brillanti della penisola (oltre ad artisti validissimi come R.Y.F. e Clever Square, recentemente una band del loro roster, i Leatherette, ha ricevuto notevoli attenzioni anche dalla stampa estera), con la quale hanno pubblicato tutta la musica che hanno prodotto dopo il loro ritorno sulle scene.
I Live Skull sono stati caratterizzati da una prolificità notevole, dato che dopo Saturday Night Massacre è arrivato Dangerous Visions, un lavoro ibrido composto da brani nuovi, da cose vecchie ri-registrate e da una vecchia Peel Session, e infine Party Zero, che è poi il motivo per cui finalmente li vediamo in tour dalle nostre parti.
Due date per loro, oltre all’obbligatoria Ravenna ce n’è finalmente anche una a Milano, nell’ormai usuale ed ottima cornice dell’Arci Bellezza.
Peccato solo che, credo per la concomitanza con un’altra serata, si sia optato per suonare alla Palestra Visconti, che resta sempre un luogo di grande fascino, ma che non è proprio l’ideale quando, come questa sera, l’affluenza è consistente: il palco pressoché assente impedisce praticamente a chiunque di vedere qualcosa, a meno che non si trovi posto nelle primissime file (cosa che per fortuna sono riuscito a fare). A parte questo inconveniente, il luogo ha il pregio di ricreare in tutto e per tutto l’atmosfera buia ed incendiaria dei piccoli club nei quali il gruppo si esibiva ai suoi esordi, anche se immagino che il pubblico all’epoca fosse decisamente più scatenato di quello, attento e composto, che abbiamo visto questa sera.
Ad aprire ci sono i Lasael, di cui purtroppo perdo la parte iniziale, pentendomene poi amaramente. Non conoscevo il quartetto di Milano, che è attivo solo dal 2021 e che ha realizzato per il momento solo un paio di singoli e l’EP Foghorn, uscito a dicembre. Mi bastano tuttavia pochi minuti per rimanere folgorato: la loro musica, una miscela satura, compatta e crudele, evoca gli scenari tenebrosi ed ossessivi degli Swans, ma ha anche l’asettica freddezza Industrial di Ministry e Nine Inch Nails. La voce filtrata di Jesse Perret, le chitarre abrasive di Stefano Lattanzio, l’implacabile sezione ritmica di Andrea Palmas (basso) e Luca Brunelli (batteria, ma con un ruolo anche ai Synth) garantiscono un’esibizione di primissimo livello, potentissima ed implacabile, molto più aggressiva rispetto alla loro versione in studio (che sono andato prontamente ad ascoltare).
Bravissimi, una vera eccellenza soprattutto perché siamo in un paese dove le proposte di questo tipo sono quasi inesistenti. Non vedo l’ora di poterli rivedere in un concerto tutto loro.
I Live Skull hanno cambiato formazione per due quarti, dei vecchi membri sono rimasti solo il chitarrista e cantante Mark C. e il batterista Richard Hutchins, che non era lì dall’inizio ma che fa parte del gruppo dal 1987. Gli altri due membri, Kent Heine al basso e Dave Hollinghurst alla chitarra, sono invece subentrati apposta per questa nuova incarnazione.
Si comincia con la vecchia “Debbie’s Headache” (la cui versione nuova compariva però su Dangerous Visions) ma sarà solo una delle poche concessioni al vecchio repertorio. Il gruppo ha infatti optato per una scelta inusuale, almeno per una band di questo tipo: concentrarsi sul presente, lasciando perdere la riproposizione del passato a tutti i costi. Una soluzione che, per quanto mi sarebbe piaciuto poter ascoltare qualcosa in più degli album storici, ho condiviso in pieno: le cose che il gruppo ha pubblicato in questi anni sono decisamente valide, diverse per stile ma per nulla inferiori a quanto fatto in passato. Party Zero, poi, è un disco compatto, potente ma con una sua personale componente melodica, dieci canzoni una più riuscita dell’altra, che hanno completato quel processo di “normalizzazione” del gruppo, che ha abbandonato le bordate Noise e le inflessioni No Wave, per abbracciare una scrittura leggermente più lineare, in bilico tra Post Punk e Rock classico.
Può anche darsi che chi c’era all’epoca adesso scuota la testa, ma per quanto mi riguarda, le varie “Magic Consciousness”, “Mad Kingship”, “Neutralize the Outliers”, “Inside the Exclusion Zone” dal vivo hanno avuto il loro perché, suonate oltretutto da una band al massimo della forma.
I suoni sono ottimi e, a parte la voce non sempre ben focalizzata (soprattutto quando a cantare era Dave Hollinghurst, “Turn Up the Static” ad esempio è stata penalizzata dal volume basso) l’impressione è quella di una line up molto affiatata. Mark C. è in grande spolvero, la sua chitarra graffia a dovere e quando rimpingua le ritmiche con semplici parti di tastiera, l’atmosfera si fa sinistra e sembra per qualche istante di rivedere i vecchi Live Skull. Mancano purtroppo lunghe fughe strumentali, a cui alcuni di questi pezzi si sarebbero prestati bene, ma le parti in cui il ritmo rallenta e fa capolino una certa atmosfera spettrale costituiscono un’utile alternanza con le bordate più compatte.
Tra i brani eseguiti, colpiscono anche “In a Perfect World”, ispirata alla New York del lockdwon, la lenta e cupa “Day One of the Experiment”, e la vecchissima “Machete”, una delle poche concessioni al repertorio storico, eseguita in maniera lucida e potente.
Data la situazione del palco, uscire e rientrare per i bis non avrebbe molto senso, per cui i quattro rimangono ai loro posti, verificando solo che i presenti abbiano davvero voglia di sentirli ancora suonare, prima di imbracciare nuovamente gli strumenti. Ci regalano ancora due brani, tra cui spicca un’ottima “Mr. Evil”, il primo pezzo del loro primo EP, giusto per chiudere il cerchio in bellezza.
Quello dei Live Skull è stato senza dubbio uno dei comeback più credibili degli ultimi anni, gente che si mette insieme semplicemente per il gusto di suonare e che sul palco si diverte davvero. È stato bello riuscire finalmente a vederli dal vivo, speriamo ci sia presto un’altra occasione, che siano sotto un’etichetta italiana in effetti lascia ben sperare.