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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
21/03/2022
Donny Hathaway
Live
Ci ha abbandonato troppo presto, non ancora trentaquattrenne, nel 1979, ma il suo lascito è indimenticabile. Ha ispirato e tuttora ispira una serie di artisti di generi trasversali, da Alicia Keys e John Mayer a Susan Tedeschi, Stevie Wonder e George Benson. Era il preferito di Amy Winehouse. Riascoltando questo epico live si può capire il perché di tanta stima, rimanendo travolti dalla commozione.

Riascoltare "You’ve Got a Friend" e di nuovo emozionarsi come fosse la prima volta, con la pelle d’oca nell’udire il pubblico di cinquant’anni fa cantarne il testo e lanciare urletti d’estasi. Non è bastata la meravigliosa Carole King, né il singolo con l’inestimabile Roberta Flack e nemmeno la più famosa versione strappalacrime del mitico James Taylor. In questo epico live di Donny Hathaway si sente tutto il calore dei ragazzi d’America, Hollywood in tal caso, in un’afosa notte di fine agosto. Si percepisce quanto potere abbia la musica quando si ha qualcosa di forte da dire, da proporre e comunicare, e questa rilettura gospel di un classico dei classici ne è la riprova. Ora non è più una semplice cover che si potrebbe ascoltare a lume di candela in un piano bar, ma è un inno alla gioia che spinge a celebrare la vita e godersi momenti indimenticabili davanti a un’Artista che sta mettendo tutto se stesso per creare, per spiegare, evidenziare, come dice etimologicamente il suo nome, cosa sia, appunto, l’arte.

Live di Donny Hathaway è la dimostrazione lampante di quanta inventiva sia presente in un musicista a 360 gradi, autore, interprete e virtuoso di uno strumento, e di quanto giovamento possa trarre una canzone se passata attraverso il suo filtro. E se con "You’ve Got a Friend" la magia è palpabile e la condivisione fra migliaia di anime è consistente, altrettanto lo è la restante parte di questo straordinario documento live, magnificamente arrangiato dall’autore, che imbottisce di jazz, funk e reminiscenze rock blues un raffinato deep soul dal potere inebriante, e mixato nientepopodimeno che da Arif Mardin, storico produttore statunitense perfettamente a suo agio nella contaminazione di generi. L’immarcescibile "What’s Going On" di Marvin Gaye, scelta saggiamente come brano di ingresso ne è esempio eclatante ed è l’iniziazione alle tastiere fantasiose di Donny, sempre in bilico tra un estro impetuoso ed un suono calibrato, sprizzanti energia a non finire e coinvolgenti. L’espressività della voce è indimenticabile, con una tonalità riconoscibile fra milioni e capace di rischiarare la più cupa oscurità senza il minimo sforzo, così naturale.

Si potrebbe parlare di doti innate per un personaggio che già a soli tre anni “ulula” nel coro gospel in una chiesa di St. Louis con sua nonna, cantante professionista e in seguito, dopo essersi diplomato e specializzato in pianoforte, prende lezioni e si perfeziona in una scuola d’arte a Washington D.C. Oramai la musica per lui è una missione, tanto da rinunciare alla laurea per buttarsi completamente in quel mondo. Lavora come turnista, è un ottimo songwriter e produttore per la Curtom Records di Curtis Mayfield, collabora proprio con lui e gli Impressions, si “sgranchisce” con gli Staple Singers e Aretha Franklin, arrivano i primi singoli, la firma per la prestigiosa Atco Records e lo storico debutto, Everything is Everything (1969).

Il suo secondo, omonimo LP, contribuisce a instillare sempre in più persone quella goccia infinita di passione creata da una sapiente commistione di pop, soul e gospel, ma è con la terza esperienza, il disco di duetti con Roberta Flack, la storica preziosa musicista che di lì a breve sarà interprete di "Killing Me Softly", che Donny vola alto nelle charts. "Where is the Love", "Baby I Love You" e la già citata "You’ve Got a Friend" consentono la piena affermazione dell’opera e gettano le basi per l’incisione del lavoro probabilmente a posteriori più influente di Hathaway, questo live pubblicato nel 1972, perfetta fotografia che lo immortala nel lato A al mitico Trobadour - quanti giganti dello spettacolo ci sono passati! - di West Hollywood (registrazioni avvenute tra il 24 e il 30 Agosto 1971) e in quello B al Bitter End di New York (7 Ottobre).

La risicata capienza, dai 200 ai 500 spettatori, permette di creare una simbiosi tra pubblico e artista e la celebre "The Ghetto", scritta a quattro mani con Leroy Hutson ne è manifesto sociale, con la continua ripetizione in coro del titolo. Applausi a scena aperta, battimani a tenere il ritmo, mentre sopraggiunge un’infuocata eruzione di virtù: i “soli” al piano elettrico del frontman sono da urlo e nei dodici minuti c’è tempo per approfondire la conoscenza con altri elementi della band, dal giovanissimo instancabile batterista Fred White, in futuro membro fondatore degli Earth, Wind & Fire con i fratelli Verdine e Maurice, all’istrionico percussionista e compositore Earl DeRouen, re dei conga drums, una vera potenza, una forza della natura. Questo tour de force strumentale dall’anima funk jazz e tenue sapore latino sfocia nella delicata, romantica "Hey Girl", accompagnata dal tocco blues etereo e leggero del leggendario chitarrista Phil Upchurch, un altro pezzo da novanta presente nella performance e che legherà il suo nome ad alcuni fra i titoli più azzeccati della discografia di George Benson, oltre alla pregiata carriera solista e a numerose collaborazioni da favola - Natalie Cole e Bob Dylan, fra le altre -.

La seconda parte dello show ci porta, come accennato, a New York: si parte subito alla grande con "Little Ghetto Boy", tagliente e sofferto inno di resistenza e speranza per la comunità black e poi c’è spazio per una dolce introduzione di Donny in "We’re Still Friends"; “Questa è una canzoncina che narra di una coppia innamorata che ha dovuto lasciarsi… ecco la loro conversazione per strada un giorno che si sono casualmente incontrati”, parole semplici per un testo solo apparentemente banale, in cui l’autore con il suo cantato emozionante rivive quella situazione di falsa empatia, in cui si mente pronunciando le parole “Siamo ancora amici”, ben sapendo che in verità si desidererebbe tutt’altro. Uno struggente assolo di chitarra di Cornell Dupree alimenta il dolore della separazione e conferma quanto il gruppo sia riuscito a commuovere trasmettendo la pura disperazione che si prova in quei frangenti.

La nostalgia e la malinconia proseguono nella breve rivisitazione di "Jealous Guy", dove la bellissima versione originale di John Lennon viene centrifugata aggiungendo scaglie di soul gospel di prima qualità. Ora tutto è pronto per il caldo finale e niente sarà più come prima al termine di "Voices Inside (Everything is Everything)", una dilatata scorribanda nel regno dove il groove è sovrano, divisa, come dice durante l’esecuzione Hathaway, in quattro “movimenti” che servono a introdurre gli altrettanti incredibili “soli” strabordanti. E se il padrone di casa si conferma Re delle tastiere, non sono da meno il sopra menzionato Dupree, più avanti colonna portante degli Stuff, una delle band più funky nella New York di fine settanta, e il preciso ritmico della sei corde Mike Howard. Discorso a parte merita l’incredibile personaggio protagonista del quarto atto: Willie Weeks (Aretha Franklin, James Taylor, George Harrison, Eric Clapton) è un dolce uragano per quelli che probabilmente rimarranno i quattro minuti di basso più celebri nel mondo del funk soul.

Purtroppo, come spesso capita, a una vetta segue una discesa e lo spettro della depressione pervade Donny. Proprio durante il periodo di questi imperiosi show dal vivo gli viene diagnosticata una schizofrenia paranoide; ciò comporta un triste elenco di farmaci da prendere e un lungo momento, dal 1973 al 1977, di instabilità mentale che tende a minare le profonde amicizie acquisite e conduce a diversi ricoveri. Il legame con Roberta Flack inizia a vacillare, anche se il successo di The Closer I Get To You (1978) fa ben sperare, ma, quando si vocifera di un possibile album di nuovo insieme, la situazione precipita. Paranoia e deliri si impossessano del giovane americano che il 13 gennaio 1979 si lancia dal quindicesimo piano di un hotel di New York, in cui risiedeva mentre stava registrando alcune sessioni con i produttori Mercury e Mtume. La Flack, devastata, trova la forza di includere i brani già incisi in duetto nel suo disco successivo, Roberta Flack Featuring Donny Hathaway, chiaro tributo all’amico che non c’è più, un uomo di un’inventiva straordinaria, la cui mente, quasi come una maledizione, è riuscita a creare pure qualcosa che lo ha distrutto.

Permangono tutte le opere e le infinite influenze su musicisti di ogni genere a testimoniare le incredibili capacità di un Artista sensazionale che ha vissuto intensamente la breve esistenza, trovando stimoli e fantasia anche dai tormenti interiori per migliorare le vite degli altri, grazie alla sua musica.

 

Ah, come invidio gli artisti
Che vivono nell'utopia!
Perché anche una vita infelice
Si illumina con la fantasia…

(Francesco Guccini)