Francia, 1981.
Un giovane regista enigmatico e visionario, di nome Leroi Alarie, sta girando la sua prima opera cinematografica. Un thriller romantico dal titolo L’Océan de toi, caratterizzato da attori sconosciuti e privi di esperienza incontrati letteralmente in strada o catapultati davanti alla cinepresa perché portati da altri attori coinvolti. La chiusura del film fu l’ostacolo maggiore, tante furono le incongruenze tra produttore e regista, dalla richiesta di non includere determinate scene alla scelta di affidare le musiche ad un assemblaggio di canzoni d’archivio, per poter risparmiare denaro. Il progetto naufragò. Insieme al progetto devono essere naufragate anche le pellicole, perché il regista decise di far sparire dalla circolazione il montaggio finale, fino ad essere creduto definitivamente perso.
Si sono susseguite le leggende e le testimonianze su questa perla perduta, che chiaramente subivano un certo fascino se provenienti dalle bocche della troupe che aveva lavorato al film, i quali (increduli per la mancata uscita) portavano testimonianze di un sicuro capolavoro perduto.
Qualche anno fa c’è stato il miracolo; il ritrovamento di un 35 mm con una versione estesa, comprese scene impressionistiche e sognanti che erano state tagliate dal montaggio finale.
Ed eccoci a noi, perché Leroi Alarie, oggi settantenne, ha accettato di fare uscire l’opera, dopo il giusto restauro, richiedendo però una colonna sonora nuova di zecca e scritta per l’occasione, da affidare al compositore funk/lounge Lance Ferguson.
Neo Zelandese, produttore, chitarrista e compositore di fama mondiale (The Bamboos, Menagerie), Ferguson ha costruito negli anni la propria ossatura sui territori funk, soul ed exotici, cosa che lo fa risultare istintivamente giusto per le musiche in questione. È riuscito infatti a trasmettere un sapore sabbioso, esotico e pregno di groove con le sue composizioni strumentali, tutte cose che ci ha favorito con la presentazione di questo progetto. Ed è curioso come questa musica creata per qualcosa di invisibile, almeno ai miei nostri occhi, si sposi così bene con una dimensione illusoria.
"L’océan de toi", traccia d’apertura, trasogna note sudate e tramonti infiniti che non lasciano spazio alla notte. Quindi basso e chitarra rigorosamente all’unisono, tastiere frammentate con reverberi lunghi, batteria posata con l’immancabile apertura di charleston in levare che porta avanti il ritmo come lo sbuffare di una locomotiva. E il tema di chitarra, ancora lungo, sottile, slide e ferroso.
"Dream Diary", appena più silenziosa ed educata, aderisce perfettamente al puzzle in costruzione, grazie a una dilatazione di piano elettrico, organo e chitarra che vanno a costruire un’impalcatura in perenne simbiosi con i movimenti del mare, un basso appena più largo, batteria che non si schioda dal bordo del rullante e coro femminile appena intuibile ma fondamentale per legarci a quel mondo.
La successiva "Prisms" si basa su due accordi e un ostinato riff bassistico che termina in anticipo sull’ultimo ottavo, cosa che se da un lato lo rende accattivante da subito, da un altro perde rapidamente il proprio effetto essendo di fatto l’unica caratteristica forte del brano. Una modulazione strana, affidata ancora al basso, che a parità di armonia cambia la propria nota di riferimento e crea un rivolto armonico ostico e di poca chiarezza, non rimette in piedi le cose.
È vero, è un film. Il contrappunto musicale delle frequenze rispetto alle scene è fondamentale tanto da trovare una propria completezza l’uno nell’altro. Quindi forse manca qualcosa, almeno finché non vedremo questa pellicola. Comincio a sentirne il bisogno e comincio ad ampliare le mie ricerche online, da un aspetto musicale a cinematografico e non trovo davvero info di attori; talmente sconosciuti da farmi assalire da un dubbio. Giunge in aiuto "Green Eyes", un tributo agli occhi dell’attrice protagonista Kate Louise, ed emerge un mondo ispirato agli Air, ancora francesi, ed alla loro stupenda "Run" di Talkie Walkie. Cori lontani, sognanti, tasti di piano effettati e richiami appena meno esotici del resto del disco; Lance sembra aver perso la bussola sui comandi legati alle immagini del film, ma è tutto sinceramente godibile.
Eccoci alla top track: queste ultime due canzoni sembrano essersi messe d’accordo per non farmi pensare all’impensabile. "Rue de la Paix" comincia con un riff bassistico memorabile, accompagnato stavolta dai giusti accordi (il mondo armonico di questo disco non mi ha ancora soddisfatto pienamente, devo ammetterlo) e dal perfetto accompagnamento ritmico. La band dei The Bamboos, accreditata insieme al proprio leader Lance Ferguson, fa un grande lavoro di ricamo. Sezione ritmica impeccabile e portante, mondo pianistico il giusto sognante, chitarra al posto esatto. Il finale mi ricorda qualcosa dei vecchi Red Hot e fatico a trovarne l’esatta collocazione, forse di "Freaky Stiley" o di "Mother’s Milk".
Arriva "The Ocean of You", una sorta di title track internazionalizzata, di differente ha il cantato femminile in inglese, quindi un testo ed una dimensione onirica che improvvisamente viene messa da parte. Il disco si sposta, diventa decisamente meno cinematografico e si spunta, nonostante la canzone sia buona.
"Moonface" torna a bussare alle nostre corde giuste e ci ritroviamo in quelle ambientazioni: una batteria downbeat, bordo del rullante, una chitarra effettata e continua che porta avanti il pezzo ed un basso che fa da contrappunto rispondendo a fine giro a qualcosa che non c’è e forse neanche esiste. Quest’idea del fantasma, della finzione comincia a prendere il sopravvento. Ancora gli Air giungono in soccorso dei miei dubbi, caratterizzando col loro immaginario lounge la successiva "The Swimming Pool". Basso continuo, filtri sintetici che fanno vedere più da vicino la luna ed una batteria perfetta. È una canzone ben riuscita.
"Vanishing act" ha il compito di salutarci e lo fa con un evidente reverbero sul rullante che ci porta dritto in quegli anni e negli esperimenti sonori, quelle innovazioni che diventavano un marchio indelebile su delle canzoni e penso al rullante di "Do ita again" dei The Beach Boys.
La canzone insiste, si spinge ma mi sembra che abbia finito le idee, complice forse un basso che non dice niente di nuovo a parte un piccolo e facile esercizio di stile. E non è affatto un bel segnale quando la cosa che parte dopo ti sorprende e ti risolleva, perché è partita 2+1, bel brano ma di un altro disco di Lance Ferguson.
Il dubbio diventa certezza, non ci credo più, e forse da un certo punto in poi non ci ha creduto più neanche Lance. Non c’è stato nessun film nel 1981, nessuna pellicola riscoperta, basta una ricerca accurata per capirlo e trovare risposta a quello che da solo ha preso sempre più spazio. Tutta un’invenzione per trovare una collocazione ultraterrena ai propri sapori musicali, una discreta e anche piuttosto riuscita operazione immaginaria e sognante, inventarsi un posto e farcelo desiderare tanto da materializzarlo a lungo in queste note.
Forse l’ispirazione prettamente musicale non è stata sempre all’altezza, l’idea iniziale alla fine rimane il punto più alto di tutta l’operazione eccetto un paio di ottime canzoni, una fuori contesto e il resto aggrappato al gusto innato ed un po’ anche al facile mestiere. Non ci resta che aspettare il regista che si inventerà il ritrovamento di una colonna sonora del 1981, per un film che non gli piacque girare per contrasti con la produzione e che si decida a girarne un altro, perfettamente aderente a questa colonna sonora. E magari tutto prenderà un inaspettato senso.