L'ex Czars è un tipo particolare anche per altri motivi, però: originario di Boulder, Colorado, vive da qualche anno in Islanda, paese che con le sue solitudini selvagge e allo stesso tempo confortevoli, lo ha salvato da una spirale di autodistruzione nella quale sembrava precipitato all'epoca di “Queen of Denmark”. Si è ambientato in fretta: ha imparato la lingua (ne parla in tutto cinque, quella per gli idiomi stranieri è una passione che ha da sempre) e nel 2014 ha pure partecipato indirettamente all'Eurovision, scrivendo assieme ai connazionali acquisiti Pöllaponk la canzone “No Prejudice”, che si è poi piazzata ottava nel contest.
Il trasferimento sembra avergli giovato e da allora la sua vita si muove su binari più tranquilli, trovando la sua espressione artistica più compiuta in “Grey Tickles, Black Pressure”, uscito nel 2015, probabilmente la cosa migliore che abbia mai fatto nella sua non ancora lunga carriera.
Oggi che ha ritrovato da tempo la serenità e che è riconosciuto all’unanimità come un nome importante, fare dischi potrebbe anche non rappresentare più un'efficace terapia ma anche più semplicemente un modo per continuare a tracciare il proprio sentiero.
“Love is Magic”, quarto lavoro in studio, era attesissimo ma per quanto mi riguarda ha deluso profondamente. Certo, riuscire a superare la varietà e la ricchezza sonora del precedente non era facile, ma qui pare di intravedere un adagiarsi compiaciuto, un voler portare a casa il risultato con il minimo sforzo, che è decisamente lontano da quello a cui Grant ci aveva abituato.
Cosa c’è che non funziona? Apparentemente nulla e anche più che apparentemente, visto che l'album ha ricevuto ottime recensioni pressoché ovunque. Il problema, a mio parere, è proprio l'impostazione generale: la scelta di avvalersi dell'aiuto di Ben Edwards, una delle menti creative dei Creep Show, il side project messo insieme da Grant e dai Wrangler lo scorso anno, forse non si è rivelata così efficace.
Già “Mr. Dynamite” non convinceva, in effetti, con quell'idea di sovrapporre le spoken word ad un'elettronica tipicamente grantiana ma anche un po’ più sbarazzina rispetto ai suoi lavori in solitaria.
Qui il gioco è molto simile. Se i due album precedenti erano molto più eterogenei nello stile, parlavano linguaggi diversi ed evocavano differenti declinazioni del songwriting (c’erano ad esempio pregevoli brani acustici), su “Love is Magic” l'elettronica è pressoché l’unico accompagnamento che vi si ritrova e l’impressione comincia ad essere che Grant si stia trovando fin troppo a proprio agio nella parte del gigione ironico e leggermente autocompiaciuto.
Per carità, un brano elegante e delicato come la title track costituisce indubbiamente un ottimo biglietto da visita (anche il video, tutto giocato sul lavoro di alcune addestratrici di cani, seppure personalmente disturbante, fa il suo effetto) ma non sono riuscito a liberarmi del tutto dall’idea che si tratti di un mero esercizio di stile.
Ci sono poi brani dal feeling divertito, dove la ritmica accelera e le sonorità si fanno sinteticamente avvolgenti: è il caso di “Preppy Boy”, il secondo singolo “He's Got His Mother's Hips” o “Diet Gum”, episodi che senza dubbio funzioneranno bene dal vivo ma che, a sentirli più volte, non ci donano niente di più di quello che già sapevamo di lui.
L’insieme è comunque fin troppo prolisso: non parlo solo della durata complessiva, che è comunque considerevole (mi spiace ma lo ribadisco per l'ennesima volta: di questi tempi nessun artista dovrebbe permettersi di scrivere un disco che superi i 45 minuti di durata) ma anche della lunghezza e a volte della dispersività delle singole tracce, dove la scelta di utilizzare il parlato (in alcuni punti compare anche l'islandese, che ormai Grant parla perfettamente) non aiuta certamente la fruibilità dell'insieme. Sta di fatto che l’iniziale “Metamorphosis”, nonostante l’autore abbia dichiarato che si tratta del suo pezzo preferito, non coglie nel segno e lo stesso si può dire per le conclusive “The Common Snipe” e “Touch and Go”, troppo statiche e prive di melodie vincenti come poteva essere “Glaciers”, che chiudeva “Pale Green Ghosts” in maniera quasi commovente e che nel complesso si muovono fin troppo statiche.
Per carità, la classe c’è sempre, due o tre canzoni di alto livello ce le ha infilate e questo non è un lavoro che si possa definire insufficiente. Da uno come lui però ci si aspettava molto di più.