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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
20/07/2025
Live Report
Luppolo In Rock, 18-19/07/2025, Colonie Padane di Cremona
Fan del Metal e del Rock old school e stufo di finire sempre con il pagare un sacco di soldi per festival in cui vedi i tuoi idoli dal maxi schermo? Prova il Luppolo in Rock. Il festival cremonese e tutti i comfort e prezzi onesti, oltre a una line up a prova di fan. Abbiamo partecipato alle prime due giornate e qui trovate il racconto.

Il Luppolo in Rock non è solo uno dei migliori Festival italiani, ma anche un perfetto paradigma di come la musica dal vivo andrebbe pensata, organizzata e fruita. L’ho ripetuto tante volte negli ultimi mesi e comprendo il rischio di risultare noioso, ma tant’è: gli Iron Maiden hanno recentemente suonato a Padova, unica tappa del Run For Your Lives Tour a non far registrare il sold out. Probabilmente (è un’ipotesi che sa quasi di certezza) perché il costo dei biglietti era più alto di circa il 40% sulla media di tutti gli altri paesi (Finlandia compresa, e si sa che lì gli stipendi e il costo della vita sono di tutt’altro livello rispetto ai nostri). Io, per esempio, li ho visti a Praga in una delle primissime date e tra viaggio, hotel e concerto, ho speso la stessa cifra che mi sarebbe costato un ingresso “Prato A” all’Euganeo.

Il fatto è che, purtroppo, in Italia la musica è concepita quasi solo così: mega eventi con grandi nomi, destinati ad un pubblico “casuale”, che non vive la musica nella sua quotidianità, che va ad uno o due concerti all’anno, e li sceglie tra quelli dei miti della sua gioventù, rivivendo così per una sera un’epoca spensierata della vita e, allo stesso tempo, pubblicando un bel po’ di testimonianze sui vari canali Social, per poter dire fieramente che “Io c’ero”.

La musica dal vivo è un’altra cosa. È passione per gli artisti che si amano, non importa che siano o meno celebrati, è volontà e possibilità di vedere chi suona da una buona posizione, di sentire bene e di poter godere dei servizi essenziali senza dover sborsare un rene o sottostare a condizioni irrazionali o truffaldine.

 

Il Luppolo in Rock è tutto questo e molto di più; è la risposta a Live Nation, a MC2, a tutti quegli “eventi” (perché ormai solo di questo si parla) consumati in venue disagevoli dove ammassare spettatori che hanno speso l’equivalente di una vacanza di una settimana al mare per scorgere i loro idoli attraverso un mega schermo, mentre combattono il caldo a suon di bottigliette d’acqua a 3 euro l’una.

Si dirà che la partecipazione è volontaria, che nessuno ti costringe, che le condizioni sono note già da prima. Tutte cose sacrosante. Infatti, parere mio personale, qui gli organizzatori c’entrano fino ad un certo punto. Semmai a loro va imputata una pervicace volontà profittatrice, li si potrà accusare di non fare quello che fanno per passione ma solo a scopo di lucro e si avrà ragione; gli organizzatori, però, fanno solo il loro lavoro. Il problema vero, l’ho detto tante volte e non cesserò mai di ribadirlo, è il pubblico: solo chi ama davvero la musica, chi ne ha fatto quasi una vocazione, una ragione di vita, potrà capire che i cosiddetti “grandi eventi” in Italia non c’entrano nulla con essa e sono da boicottare senza se e senza ma. Chi ama davvero la musica frequenta Luppolo in Rock e Frantic, giusto per citare due dei migliori appuntamenti che ci sono dalle nostre parti, almeno per limitarsi al Metal.

 

Il festival cremonese è ormai giunto alla settima edizione, essendo stato inaugurato nel 2018 e non essendosi svolto nel 2020 per le ragioni che tutti sappiamo. Per me è solo la seconda volta (l’anno scorso il bill mi interessava parecchio ma purtroppo ero impegnato altrove) ma una volta entrato nell’area dedicata, all’interno del Parco Colonie Padane, mi sento subito a casa. I comfort ci sono tutti: parcheggio gratuito, area spaziosa e sufficientemente ombreggiata (anche se purtroppo nelle ore più calde se si vuole stare sotto il palco bisogna beccarsi il sole) diversi stand dove mangiare e bere a prezzi purtroppo non bassi (ormai è un fenomeno impossibile da combattere, temo) ma comunque non truffaldini come in altre location, e soprattutto senza gli sciagurati Token come valuta corrente; abbondanza di bancarelle con cd, vinili, magliette e quant’altro, tutto nella zona antistante, libera e aperta a tutti, dove ogni sera ci sarà un dj set a tema Metal tenuto da Alex Cayne.

Da ultimo: l’abbonamento per tre giorni costa poco meno di un biglietto “pit” per i vari Maiden, Ac/Dc, Metallica, con una line up che anche quest’anno definire di alto livello sarebbe un eufemismo.

Adesso però basta con le chiacchiere ed entriamo nel vivo: qui di seguito, la cronaca completa delle due giornate a cui ho partecipato.

 

 

Venerdì 18 luglio

Tra viaggio e sistemazione in hotel, succede che troppo tardi per vedere Classe 99 e Crimson Dawn, per cui il mio personale festival inizia con gli Stranger Vision, altra componente di una quota italiana che quest'anno è decisamente ben rappresentata. Fin qui hanno all'attivo tre dischi l'ultimo dei quali, Faust Act I: Prelude to Dark, uscito l'anno scorso, è la prima parte di un concept incentrato sulla celebre opera di Goethe (e già qui, per quanto mi riguarda, guadagnano mille punti).

Power Prog non troppo intricato, con un songwriting maturo e caratterizzato da melodie davvero molto riuscite, danno vita ad uno show energico e convincente, nonostante i problemi tecnici che li hanno afflitti prima dell'inizio. A parte le tastiere in base, che proprio non sopporto, il resto è più che soddisfacente, con tutti e quattro i musicisti che sfoggiano un'ottima tecnica e dimostrano di essere parecchio affiatati. Ci sarà un motivo se, nel corso di una carriera fin qui ancora breve, hanno già collaborato con pezzi da novanta come Hansi Kursch e James La Brie.

 

Mi ero perso i Tygers of Pan Tang lo scorso anno al Metal Park (avevano suonato troppo presto) per cui sono contento di poterli recuperare ora, visto che non li ho mai visti dal vivo. Certo, di quella band che furoreggiava quarant'anni fa a guida di quel movimento che si chiamava New Wave of British Heavy Metal, che tanta importanza ha avuto negli sviluppi di questo genere, non è rimasto molto, visto che, della formazione originale, ormai da tempo c'è solo il chitarrista Robb Weir.

Sarebbe un errore sottovalutarli, però: dal 2004 dietro il microfono sta in pianta stabile il nostro connazionale Jacopo Meille, cantante straordinario che, assieme al batterista Craig Ellis (presente dal 2000), al bassista Huw Holding e all'altro italiano Francesco Marras alla chitarra solista, hanno saputo dare un più che degno seguito alla parte più iconica della loro carriera. La riprova è che quando ai due classici iniziali, "Love Don't Stay" e "Gangland", seguono due brani recenti come "Only the Brave" e "Back for Good", la differenza quasi non si avverte.

I cinque sfoderano una performance straordinaria, con un Robb Weir in grandissimo spolvero e Meille che si conferma un grande frontman, oltre che un ottimo cantante. Il suono è potente come ai vecchi tempi e la scaletta non punta così tanto sui pezzi del passato remoto come sarebbe normale aspettarsi (“Suzie Smiled” e “Spellbound” rimangono comunque imprescindibili). Del resto la versione al fulmicotone di "Fire on the Horizon" che ci viene data in pasto è il miglior segno possibile che il gruppo è ancora vivo e con parecchie cose da dire. Chiude una potente "Love Potion No. 9", la cover dei Clovers con cui di solito si congedano dal pubblico. Speriamo di vederli al più presto in uno show tutto loro.

 

Gli ultimi anni dei Grave Digger non sono stati semplicissimi, complici cambi di formazione ed una serie di dischi non proprio all'altezza. La popolarità goduta dal gruppo tedesco nella seconda metà degli anni '90 è ormai del tutto evaporata ma ciononostante continuano ad essere seguiti da un affezionato nucleo di fan che anche quest'oggi non fa mancare il proprio supporto. Il bassista Jens Becker è l'unico membro di lunga data rimasto in formazione, oltre ovviamente al cantante Chris Boltendhal, sempre inossidabile e carismatico nonostante le primavere accumulate. Alla chitarra il nuovo arrivato Tobias Kersting se la cava egregiamente e i nostri danno vita ad uno show potente e roccioso (reso ancora più massiccio dal fatto che non hanno più nessuno alle tastiere), in piena linea col Metal vecchia scuola che rappresentano.

A parte un paio di pezzi nuovi, decisamente trascurabili, ascoltiamo estratti dal loro periodo più fortunato, tra cui ovviamente non manca "Rebellion", il cui ritornello è scandito dal pubblico. Arrivano anche "Twilight of the Gods", "Valhalla", "The Dark of the Sun" ed "Excalibur", a dimostrazione che il periodo dei concept epico-storici è ancora di gran lunga il più acclamato. Notevoli anche il mid tempo di "The Grave Dancer" e la mazzata sui denti di "Under My Flag", da due lavori sottovalutati come Heart of Darkness e The Reaper. Chiusura inevitabile con “Heavy Metal Breakdown” e tanto, tanto divertimento. Fa piacere vedere che non hanno mollato il colpo.

 

È ora il turno dei Primal Fear, che hanno fatto notizia per un radicale cambio di formazione che ha estromesso tre quinti della precedente line up, nonché per l'ingresso della giovane e talentuosa chitarrista italo-cubana Thalia Bellazecca, che ha fatto sospettare una decisione presa soprattutto per l'esposizione Social di cui gode questa musicista. Sia anche così, le capacità non le mancano e l'incarnazione odierna della band non fa rimpiangere quella del passato. Con Matt Sinner (che sembra essersi discretamente ripreso dai grossi problemi di cuore che lo hanno travagliato nel 2021, portandolo addirittura in coma per un mese) e Ralf Scheepers sempre saldi al comando, il gruppo si dimostra in formissima e l'esecuzione della nuova "The Hunter", tratta dal nuovo disco in uscita a fine agosto, fa capire che anche dal punto di vista compositivo non se la passano niente male (e qui il rientro del chitarrista Magnus Karlsson, da sempre ottimo compositore, potrebbe aver pesato).

Attacco affidato ad un trittico letale composto da "Final Embrace", "Nuclear Fire" e "Angel in Black", che manda in visibilio il pubblico ed indirizza immediatamente lo show sui binari giusti. L'affiatamento è già buono, Sinner è comprensibilmente statico ma suona potente ed è ottimo sulle seconde voci. Per il resto, è tutto un tripudio di ritmiche serrate, riff taglienti e rasoiate vocali da parte di un Ralf Scheepers che, nonostante gli anni che passano, rimane in splendida forma.

In quasi trent'anni di attività hanno accumulato una marea di dischi, ma l’attenzione è concentrata sui pezzi più vecchi e conosciuti, come forse è normale in queste occasioni. Del resto, è anche vero che le poche cose recenti proposte, come "King of Madness" e "The End is Near", non funzionano altrettanto bene. Spazio dunque alla potentissima "Chainbreaker", alla fin troppo pacchiana "Metal is Forever", con la chiusura affidata poi alla cavalcata di "Running in the Dust". Un ottimo show, con qualche aspettativa in più per il nuovo album.

 

I Pretty Maids li aspettavo da parecchio tempo e sono senza dubbio la ragione principale per cui sono qui oggi. La band danese è attiva dai primissimi anni '80 ma sta vivendo una vera e propria seconda giovinezza, grazie anche allo svecchiamento sonoro intrapreso dal tastierista Chris Laney, in forza al gruppo dal 2016 e a ad una serie di dischi uno più bello dell'altro pubblicati dalla nostrana Frontiers Records.

Arrivano dopo un cambio palco più lungo del solito (strano, perché fino ad ora le operazioni erano state velocissime) e attaccano con una potente "Mother of All Lies", seguita a ruota da un'anthemica "Kingmaker", a mostrare subito il lato più Metal dei loro lavori recenti.

Ronnie Atkins purtroppo non è al meglio e la sua voce arranca parecchio nelle prime battute; si riprenderà nel prosieguo del concerto e riuscirà a portare a casa una prestazione più che onesta, sebbene non ci siano dubbi che abbia vissuto giornate migliori.

Il resto della band, trascinato da un grandissimo Allan Tschicaja, vera macchina da guerra dietro le pelli, viaggia a meraviglia e incanta per un'ora e mezza, con una setlist perfettamente bilanciata tra le cose più classicamente Metal ("Serpentine", "Pandaemonium", la straordinaria "Back to Back", che contribuì alla loro riscoperta quando, a fine anni '90, fu coverizzata dagli Hammerfall) e i momenti Hard Rock e AOR, sonorità a cui il gruppo è normalmente associato ma che non lo hanno mai definito del tutto: su questo versante, "Hell on High Heels" e "Don't Walk Away" sono meravigliose, ma spicca anche una Power Ballad intensa come "Little Drops of Heaven", nonché la sdolcinatissima cover di John Sykes "Please, Don't Leave Me". Grande prova anche del chitarrista Ken Hammer, assieme ad Atkins unico superstite della formazione originale, che non ha per nulla perso il tocco sopraffino negli assoli e la potenza nel riffing.

Stupisce, semmai, che il pubblico si sia notevolmente sfoltito dopo la fine dei Primal Fear, e che, man mano che il concerto va avanti, si formino sempre più buchi nelle ultime file. Ok, la band da noi è sempre stata semisconosciuta, nonostante il loro cantante sia una presenza fissa nel blasonato progetto Avantasia e nonostante incidano da tempo per una label italiana; detto questo, mi sarei aspettato dai nostri metallari un maggiore rispetto per un act di livello indiscusso, che non è mai stato facile vedere in azione dalle nostre parti.

Per fortuna chi è rimasto partecipa alla grande, così che il finale della performance può essere supportato dalla dovuta intensità. Ovviamente arrivano i grandi classici, inframmezzati da una perla recente come "Bull's Eye": "Yellow Rain", "Future World", "Love Games" vengono sparate a mille e costituiscono il modo migliore per chiudere un concerto davvero favoloso.

È ormai l'una passata ma ne è valsa la pena, adesso si va a dormire e poi pronti per un'altra giornata...

 

 

Sabato 19 luglio

Tempo nuvoloso, un po’ di afa e una leggera pioggerella, che cadrà ad intermittenza per tutto l’arco della giornata, sempre per pochissimi minuti e, per fortuna, senza disturbare. Piuttosto, la fortuna è che non c’è il sole battente, per cui ci si può sistemare comodamente sotto al palco anche durante i primi gruppi. Non me ne voglia John Elliot dei Crashdïet, che si è lamentato più volte del caldo infernale (dopotutto viene dal nord della Svezia, c’è da capirlo) ma sappiamo tutti che poteva andare MOLTO peggio…

Aprono i varesini Killerfreaks, attivi da vent'anni e fautori di un Horror Metal lineare e piuttosto piacevole. Face Painting e vestiario a tema, sul modello di Lordi e Gwar (e più recentemente, Ghost) anche se ovviamente molto meno elaborati. Simpatici e comunicativi, potenza e tiro in abbondanza, riscuotono un successo più che meritato tra i presenti, già piuttosto numerosi nonostante siano solo le quattro del pomeriggio.

Altrettanto buono lo show dei Nastyville, italiani pure loro, freschi autori di Rebirth, che si è avvalso del contributo di un nome importante come Alessandro Del Vecchio. Sleaze Rock di pregevole fattura, sullo stile di Motley Crüe, Skid Row e Poison, un cantante sopra la media ed una notevole personalità nella tenuta del palco e nella scrittura dei brani. Se vi piace il genere, sono altamente consigliati.

 

I Love Machine sono uno di quei gruppi storici del nostro sottobosco musicale che, per mille ragioni, non sono mai riusciti ad andare oltre un microscopico stato di culto. Riformatisi alcuni anni fa, hanno dato alle stampe nel 2018 Universe of Minds, e a quanto pare stanno per tornare con un nuovo lavoro, da cui hanno anticipato quello che dovrebbe essere il nuovo singolo, "In Time". Scrittura un po' datata ma abbastanza valida, in bilico tra Hard Rock e Metal prettamente ottantiano. Prova comunque più che convincente, terminata con l'esecuzione della potente "Anyway", che smuove non poco le prime file.

Tocca ora ai lombardi The Headless Ghost, che hanno esordito l'anno scorso con King of Pain, pubblicato dalla sempre molto attiva label Punishment 18. Sound e immaginario lirico e visivo decisamente ispirato a King Diamond e ai suoi Mercyful Fate, omaggiati anche all'interno della scaletta, con una convincente cover di "Evil". Sul palco sono notevoli, grazie ad un ottimo batterista come Omar Cappetti e ai due chitarristi Aurelio Parise e Alberto Biffi, che dialogano tra soli e veloci fraseggi ritmici tipicamente di scuola Eighties. Così di primo acchito i pezzi non mi hanno convinto del tutto ma è anche vero che la proposta non è immediata e sarebbe giusto dar loro una chance ascoltando il disco. Nel poco tempo a disposizione (una costante, in questa prima fase di giornata) sono comunque riusciti a farsi valere.

 

Quella che arriva adesso è un'autentica chicca: i Wyvern, tra le band più iconiche e celebrate della nostra scena Metal (più dalla critica che dal pubblico, purtroppo) sono tornati, dopo mille vicissitudini, in formazione originale, hanno cambiato nome in WYV85, e nel 2023 hanno pubblicato un EP, Back and Forth, che raccoglie due inediti e versioni ritegistrate di alcuni vecchi pezzi, e che ce li ha restituiti decisamente in ottima forma.

Inizio a pieni giri con "Bounty Killer" e poi via con "Out of Time" e l'inedita "Face the Truth". I suoni sono ottimi e il gruppo viaggia che è un piacere, comprensibilmente entusiasta per l'occasione. Viene proposto anche il nuovissimo singolo "Black Clouds", ottimo brano che speriamo possa essere il preludio ad un ritorno con tutti i crismi. Finale con la cavalcata maideniana di "Walking the Night". Un gran concerto, che ci lascia con la voglia di rivederli presto in azione.

 

I bolognesi Tarchon Fist, nati ad inizio Duemila da una costola dei Rain, sono una di quelle band italiane che sta raccogliendo discreti consensi, ed è comprensibile che siano in una posizione piuttosto alta nel bill. Stupisce invece che suonino così poco, appena 25 minuti, un tempo che è sufficiente per scaldare il pubblico (c'è un bel pogo nelle prime file) ma non per dispiegare tutte le loro qualità. Heavy Metal roccioso e che più classico non si potrebbe, un genere che ormai dalle nostre parti sono rimasti in pochissimi a fare, ma che risulta vincente grazie ad un'esecuzione potente e dinamica, con un Mirco Ramondo davvero trascinante dietro il microfono.

"No Mercy For the Enemy" e "I Stole a Kiss to the Devil" sono esempi di brani che, per quanto derivativi, risultano pienamente efficaci. Hanno detto di aver registrato l'esibizione, chissà che non ci riservino qualche sorpresa prima o poi.

 

Coi Crashdïet iniziano ad arrivare anche le band straniere, all'interno di una giornata che è stata praticamente dominata dai gruppi di casa nostra (ed anche leggermente più scarica a livello di importanza dei nomi, ma è probabile che un headliner come i Running Wild abbiano assorbito parecchie risorse economiche).

La band svedese presenta di fatto il nuovo cantante John Elliot, che si è unito al gruppo lo scorso anno e non ha ancora preso parte a nessun disco in studio. Tiene il palco benissimo e, a parte qualche sbavatura ed una rocambolesca caduta durante "It's a Miracle", passa l'esame in pieno. Per il resto, stiamo parlando di uno degli act più caldi sulla piazza in termini di Glam Rock, e direi che dal vivo soddisfano le aspettative, con una performance selvaggia e incendiaria, dove mettono in mostra un gran tiro ed una notevole capacità di gestione dei cori (non un particolare secondario, se si pensa che oggi molte band preferiscono averli a disposizione registrati).

Il repertorio lo conosciamo, per cui quando partono le varie "Riot in Everyone", "Cocaine Cowboys", "Queen O scene/69 Shorts", "Chemicals", "Breakin' the Chainz", non ce n'è davvero per nessuno. Michael Sweet alla batteria, anche lui da poco entrato, tiene alta la pressione, mentre i due membri fondatori Peter London (basso) e Martin Sweet (chitarra) ormai non hanno più nulla da dimostrare.

Sono un po' fuori posto in un bill incentrato sul Classic Metal ma i presenti apprezzano a dovere e non si vede nessuno che si annoia. Splendido il finale col manifesto "Generation Wild", che se fosse uscita nel 1984 sarebbe divenuta una hit planetaria. Adesso manca solo il nuovo album e siamo a posto.

 

I Firewind dal vivo non li ho mai visti perché quando sono usciti, il Power Metal godeva ancora di ottima salute e gli standard qualitativi erano troppo alti per dare l'attenzione sufficiente ad un gruppo che, nonostante la presenza di un chitarrista già piuttosto importante come Gus G., non era davvero niente di che. Quando hanno iniziato a crescere, più o meno nel periodo di Premonition, mi ero abbastanza allontanato da quel mondo, e poi ci sono state alcune occasioni che avrei potuto cogliere e che invece mi sono lasciato sfuggire. Poco male, stasera siamo qui ed è un momento ottimale per la band greca, con il ventesimo anniversario da poco festeggiato con un bel live album, e un disco, Stand United, il secondo con Herbie Langhans alla voce (in fatto di cantanti non sono mai stati troppo fortunati, credo che questo sia il quinto), che li conferma come uno dei nomi Power migliori in circolazione (e chi se lo sarebbe mai immaginato, anche solo quindici anni fa?).

Purtroppo la formazione attuale è ad una sola chitarra e non ci sono le tastiere, così che le poche parti necessarie vengono fastidiosamente mandate in base. Al di là di questi particolari, il quartetto dal vivo è una potenza, con un gran batterista come Johan Nunez a trainare ed un Herbie Langhans grande mattatore, con la sua ugola molto simile a quella di Jorn Lande, che non a caso gli è valso il ruolo di sostituto del singer norvegese nel recente tour di Avantasia. Gus G. poi è straordinario, impeccabile nel riffing e pulitissimo negli assoli, che data la sua natura di guitar hero, nelle composizioni della band hanno sempre abbondato. Scaletta breve, purtroppo, perché hanno a disposizione solo un'ora, ma riusciamo comunque ad ascoltare classici come "World on Fire", "Destination Forever", "Ode to Leonidas" e "Falling to Pieces". Non manca ovviamente la cover di "Maniac", tratta dalla colonna sonora di Flashdance, che ha scatenato i presenti. Hanno promesso di tornare l'anno prossimo col nuovo disco: questa volta cercherò di non perdermeli.

 

Quando i Running Wild erano all'apice del successo ero troppo piccolo per andare in Germania, come ricordo che facevano alcuni dei fan che incontravo a quelli che all'epoca erano i primi concerti di Gamma Ray, Blind Guardian e Rage nel nostro paese. Avrei potuto vederli a Vigevano nel 2000, in quello che rimane tuttora il loro unico show da headliner in Italia (poi vennero al Gods of Metal del 2002 ma li fecero suonare a metà pomeriggio, a quanto mi dissero) ma ricordo che ero tornato dalle vacanze, ero stanco ed il disco appena pubblicato, Victory, mi aveva tremendamente deluso. Oggi, dopo trent'anni esatti che li ascolto, ho finalmente modo di assistere ad un loro concerto, l'unica band metal di una certa importanza che ancora mancava sulla mia chilometrica lista di live vissuti.

Per certi versi arrivo troppo tardi: Rock’n’ Rolf e compagni (è un modo di dire perché di fatto sono sempre stata una one man band) non fanno un disco bello dal 1998, negli ultimi tempi non si era capito se si fossero sciolti o meno (di certo ricordo un concerto d'addio al Wacken ma poi erano usciti altri album) e adesso arrivavano da un periodo di inattività piuttosto lungo. Tuttavia gli amori di gioventù in un certo senso non svaniscono mai, e il desiderio di ascoltare almeno di una manciata di quei pezzi per cui impazzivo da adolescente, è senza dubbio il principale motivo che mi ha portato oggi a Cremona.

Purtroppo, a pochi minuti dall’inizio, constato come il posto non sia imballato come sarebbe stato lecito aspettarsi. Il pubblico freme e nell'aria si avverte una certa eccitazione ma nelle retrovie si scorgono diversi spazi vuoti. E allora la domanda sorge spontanea: se nemmeno una serata del genere, col ritorno in Italia di un gruppo storico dopo un'assenza di più di vent'anni, riesce ad andare sold out, dove vogliamo andare?

Concentriamoci comunque sul lato positivo: c'è un bel po' di gente che scalpita impaziente e che esplode in un boato liberatorio quando le note di "Rock and Roll All Nite" sparate a mo di preludio, lasciano il posto a "Chamber of Lies", senza dubbio la intro migliore che i Running Wild abbiano mai avuto, la cui melodia viene immediatamente accompagnata dal coro rumoroso dei presenti.

Uno dopo l'altro ecco Michael Wolpers (batteria), Ole Hempelmann (basso) e Peter Jordan (chitarra), ultima incarnazione della ciurma capitanata da Rolf Kasparek, tutti vestiti, come da costume, con divise che richiamano quelle degli ufficiali di marina inglesi del XVII secolo. Quando attaccano il riff di "Fistful of Dynamite" eccolo lì, il capitano in persona, pronto a prendere possesso della nave. Purtroppo mancano i pyros (spiegherà più avanti lui stesso che si è trattato del solito problema burocratico dei permessi da ottenere, che ovviamente non sono arrivati) ma l'impatto è comunque notevole. L'attuale line up non è certo la migliore che il gruppo abbia mai avuto, ma se la cava più che egregiamente, il tiro è buono e anche Kasparek, dall’alto dei suoi 64 anni, sembra tutto sommato in forma, nonostante la voce, che ha conservato intatto il suo timbro inconfondibile, sia soggetta a qualche cedimento.

Ci saremmo aspettati una setlist all’insegna dei classici e difatti è così, anche se, per qualche oscuro motivo, sentono il bisogno di proporre “Piece of the Action” e “Locomotive”, due episodi tratti da Shadowmaker, del 2012: due brani decisamente insignificanti ma che nell’economia generale dello show non funzionano malissimo, pur rubando tempo prezioso a cose ben più meritevoli. Avrebbe potuto andare peggio, comunque: se si guarda online la scaletta di Vigevano, ci si accorge che allora i presenti furono molto più sfortunati!

Proseguendo, ecco due pezzi da novanta come “Bad to the Bone” e la magnifica cavalcata di “Riding the Storm”, suonata velocissima a scatenare il putiferio nelle prime file. Atmosfera euforica, ritornelli cantati a squarciagola, il gruppo che si fa trascinare da tutto questo entusiasmo: la serata è partita decisamente col piede giusto.

Dopo una splendida “Little Big Horn” arriva anche un brano vecchissimo come “Branded and Exiled”, purtroppo dilatato da un botta e risposta di cori tra Rock’n’Rolf e il pubblico, che è risultato francamente inutile e che ha sottratto tempo ad altre canzoni. È un po’ un problema dello show, in effetti: tra un brano e l’altro si ha l’impressione che passi sempre un po’ più del dovuto, tra introduzione ai pezzi, chiacchiere varie, fisiologici momenti per rifiatare, e addirittura l’inutilissimo assolo di batteria. Tutto questo ha fatto perdere fluidità ad un concerto che, al di là di tutto, procede più che egregiamente.

“Lead or Gold” è un altro grande pezzo proveniente dal glorioso passato, “Souless” è sciaguratamente l’unico estratto dal capolavoro Black Hand Inn (e NIENTE da Masquerade, vogliamo parlarne?) ma è suonata un po’ troppo lenta e perde di mordente. Nel finale non può mancare “Under Jolly Roger” che, come ha affermato Rolf prima di eseguirla, è la canzone che ha dato il via a tutto l’immaginario piratesco indissolubilmente legato alla band: qui la mancanza dei pyros si fa sentire ma i cori del pubblico sopperiscono per buona parte a rendere incendiaria l’atmosfera.

Siamo già alla fine ma, per fortuna, nei bis arriva la chicca assoluta di “Treasure Island”, un brano che è tra i migliori della loro storia, che contiene tutte le caratteristiche di epicità e carica drammatica che li hanno resi famosi, e che dal vivo non è mai stato troppo valorizzato. Gran regalo, ma purtroppo è anche l’ultimo per stasera: 11 canzoni in tutto per un’ora e venti circa, comprese anche tutte le pause e i momenti di dispersione. Decisamente poco, per un gruppo che mancava da noi da così tanto tempo. Peccato davvero, perché poi, se presa singolarmente, la performance è stata più che buona. Sarà per la prossima volta, si spera.

Nel frattempo complimenti ancora al Luppolo in Rock per quanto realizzato e un appello preciso a chi non c’era: datevi una svegliata, perché questi appuntamenti non si costruiscono da soli. Invece di riempire gli stadi per riempirsi i profili social di video e far rosicare gli amici, date una chance a chi queste cose le organizza unicamente per passione, e non per mera sete di guadagno.

Ci si vede l’anno prossimo.