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REVIEWSLE RECENSIONI
30/07/2018
Snail Mail
Lush
Si sta parlando molto di questo disco negli ultimi mesi, effetto di quel meccanismo strano per cui ad un certo punto un nome arriva sulla bocca di tutti e sembra che non ci sia nient’altro da ascoltare. È un’ottima cosa di sicuro, se non fosse che poi, a volte, si prescinde dal valore effettivo e non si capisce mai perché quello sì e magari un altro con capacità superiori finisce presto nel dimenticatoio.

Lindsey Jordan, col suo progetto Snail Mail, aveva già realizzato un ep, “Habit”, nel 2016 ma si è fatta notare veramente solo con quest’ultimo “Lush”. Un lavoro che, pur non avendo nulla in comune con l’omonima band, la richiama se non altro nell’urgenza che ha di portare le chitarre in primo piano.

Non è tanto una guerra generazionale, quella che si sta combattendo in questi anni tra chi fa musica utilizzando soluzioni digitali e chi ancora preferisce l’analogico, quanto piuttosto una questione di stili e di opportunità.

È evidente che, al di là di tutte le elucubrazioni che si possono fare su cosa vende o meno, in questa nuova era musicale ci sia davvero posto per tutti, e forse ormai queste premesse sono divenute superflue.

Il disco di Snail Mail, che potrebbe a questo punto essere considerato come il suo vero esordio, si colloca in pieno all’interno di quel filone Indie Rock che parte dalla leggera trasandatezza dei Pavement per approdare ad un cantautorato intimista, fortemente debitore di un certo Slowcore. L’esplosione di Julien Baker ha fatto sì che sia lei ormai, il principale termine di paragone tirato in ballo ma non dimentichiamo gli Hop Along, Soccer Mommy e anche Courtney Barnett, pur se l’australiana si muove su un terreno leggermente diverso.

Canzoni da cameretta, quindi, in formazione a quattro, con arrangiamenti scarni e basilari, quasi da presa diretta, una chitarra, quasi sempre suonata senza distorsione, a fare gran parte del lavoro, qualche piccolo intervento solista qua e là ma senza mai essere troppo invadente.

Dieci brani che ogni tanto spingono sull’acceleratore (“Pristine”, “Heat Wave”) ma che il più delle volte prediligono atmosfere più malinconiche e struggenti (“Deep Sea”, “Anytime”, “Stick”, quest’ultima già inclusa in versione differente nel precedente ep).

La Jordan canta con ugola fragile e decisa al tempo stesso, la voce di una ragazza che non fa la cantante di mestiere ma che usa la voce solamente come veicolo di comunicazione delle emozioni che ha dentro, delle storie che vuole raccontare. Storie che non sono mai contestualizzate e che vengono narrate più che altro mediante istantanee impressionistiche; si capisce però che a farla da padrone è la tematica affettiva, col suo contorno di sofferenze e delusioni, di rischi e di cadute: “Le canzoni sono quasi tutte nate da storie d’amore – ha dichiarato in una intervista recente, riportata anche da Rolling Stone – Mentre scrivevo ho attraversato molte relazioni, ho capito cosa significa essere gay. Non è proprio questo il tema, ma ho sentito la necessità di essere onesta con me stessa.”. Un percorso tortuoso, per certi versi simile a quello a sua volta affrontato dalla Baker, del cui disco ci eravamo occupati lo scorso autunno.

Ecco, per quanto riguarda invece il risultato finale, diciamo che non va tutto benissimo. “Lush” ha ricevuto ovunque recensioni entusiastiche ma a mio parere non sempre giustificate.

Certo, l’impressione dei primi ascolti è ottima: la voce è affascinante, anche se nulla di nuovo sotto il sole per quanto riguarda il timbro e le inflessioni; il tessuto strumentale è semplice, di puro accompagnamento ma funzionale all’insieme. I pezzi sono gradevoli, con pregevoli intuizioni melodiche, il feeling generale è quello di una confessione sincera, di un’amica che ti rivela il suo lato più fragile ma nello stesso tempo ti dice che può farcela da sola.

Il problema è però che non tutti gli episodi appaiono ben strutturati: se singoli come “Pristine” o “Heat Wave” funzionano bene, altrove si assiste ad una certa confusione, come se le splendide linee vocali che la Jordan ogni tanto tira fuori, non fossero contestualizzate all’interno di una forma canzone ordinata e coerente. In poche parole, più si procede nell’ascolto e più va incontro ad un effetto di confusione, coi brani che appaiono alla lunga troppo simili tra loro e un fluire di idee che rende difficoltoso memorizzare tutto.

È sicuramente un disco gradevole ed è vero che la ragazzina di Baltimora è in possesso di un vero talento. Vero però che c’è ancora molto su cui lavorare e che il gridare al miracolo che si sta facendo rispetto a questi brani appare francamente esagerato.

Bello comunque che ci siano artisti che hanno ancora voglia di portare avanti questa formula di rock semplice ed autobiografico, lontano dal glamour delle mega produzioni. Una narrazione che avrà forse meno appeal ma di cui senza dubbio c’è ancora un gran bisogno.