Quando si parla di musica come riscatto, rifugio e redenzione, non può che venir in mente la storia di Jamesetta Hawkins, al secolo Etta James, una donna straordinaria.
Nata nel 1938 a Los Angeles, senza aver mai conosciuto il padre e abbandonata precocemente dalla giovanissima madre, la piccola Etta trascorre un'infanzia difficile presso alcune famiglie adottive, trovando conforto nel canto in chiesa. Nel 1950 si ricongiunge con la mamma a San Francisco e forma un trio vocale, le Creolettes, per merito del quale viene notata dal grande compositore e produttore Johnny Otis, artista che di lì a poco sfornerà celebri hit quali "Willie and the Hand Jive" e "Crazy Country Hop". Grazie a lui incide un primo 45 giri, "The Wallflower", noto anche con il titolo "Dance with Me, Henry" (1955), in duetto con Richard Berry.
Inizia così formalmente la sua carriera, proseguita in tour con Little Richard, e innalzata da singoli di buon successo sotto la Argo, sussidiaria della storica etichetta Chess di Chicago. “At Last”, “I Just Want to Make Love to You" e "Something's Got a Hold on Me" diventano i suoi cavalli di battaglia di matrice r&b e sfumature gospel, fino al momento della consacrazione, quando scorre il 1967, con l’album Tell Mama, ove svettano classici del calibro di “I’d Rather Go Blind” e “The Love of My Man”.
Le scorie di una gioventù difficile tornano purtroppo a farsi sentire proprio quando l’artista è nel suo momento migliore e, tra un periodo di disintossicazione e un altro, la fine degli anni Sessanta e gran parte del decennio successivo sono altalenanti.
La James comunque non molla e torna a brillare in Deep in the Night (1978), Seven Year Itch (1988) e Mistery Lady (1994), sentito tributo a Billie Holiday. L’attività live non delude mai, e intanto il soul e alcune sagaci incursioni nel mondo jazz e pop (si veda ad esempio Heart of a Woman, 1999) tengono alto il suo nome fino a inizio secolo, quando sforna un piccolo capolavoro dedicato alla tradizione, nel segno del genere padre di tutti quelli moderni. Matriarch of the Blues, mai un titolo risulta più appropriato, è difatti l’opera che certifica la splendida forma in cui si trova Etta James nel nuovo millennio.
Così, dopo aver circumnavigato tutti i mari della black music, l’interprete americana ritorna nella vecchia baia del blues e adatta alle dodici battute l’intero repertorio del disco. Una voce e una sezione ritmica devastanti rendono memorabili una serie di cover in parte inaspettate: i brani ripescati hanno bisogno di poche presentazioni, sono riletture di personaggi come Otis Redding (“Try a Little Tenderness”), Ray Charles (una maestosa “Come Back Baby”), Al Green (“Rhymes”), ma pure, sorprendentemente, Bob Dylan (“Gotta Serve Somebody”), i tanto amati e amici Rolling Stones (“Miss You”) e nientepopodimeno che John Fogerty (“Born on the Bayou”).
La “Matriarca” si circonda di un pugno di abili musicisti, con fiati e cori che si aggiungono a chitarre (Leo Nocentelli e Bobby Murray in stato di grazia!), basso, batteria e allo splendido organo Hammond di Mike Finnigan, e comincia a snocciolare con la consueta potenza i vari pezzi. Gli arrangiamenti, ovviamente in chiave blues, sono sapienti, e sanno dove andare a parare per causare una cascata di emozioni in chi le ascolta. Debordare poi nell’r&b per la cara Etta è un gioco, una tendenza naturale perfettamente assecondata dal gruppo di supporto, e non fa altro che impreziosire la superba interpretazione.
“Hawg for Ya”, ideata dalla penna affilata del sempiterno Redding, è bella come l’originale e piace per le nuove sfumature acquisite, mentre l’accoppiata di canzoni di Deadric Malone, “Don’t Let My Baby Ride” e la ballata travolgente “You’re Gonna Make Me Cry”, saprebbero far sangue anche a un anemico. L’inarrivabile “Walking the Back Streets”, sette minuti di brividi lungo la schiena, il classico “Let’s Straighten It Out”, reso celebre da B.B. King e in seguito da Millie Jackson, e l’immarcescibile “Hound Dog” di Elvis Presley sono altri colpi geniali in un’opera senza pause, da sorseggiare tutta d’un fiato come una fresca limonata in una afosa domenica di agosto.
Matriarch of the Blues certifica un improvviso ritorno di popolarità per una cantante che già alcuni anni prima, nel 1996, si era trovata ai vertici delle classifiche con la ripubblicazione della già citata "I Just Want to Make Love to You", grazie al successo di uno spot pubblicitario.
Etta trascorre gli ultimi anni di esistenza in un continuo saliscendi, specchio della sua storia piena di episodi contrastanti, con gioie e tormenti, slanci di vita e sofferenza. Nel 2003 riceve un Grammy alla carriera, doppiato poco dopo da una statuetta per il miglior album di blues contemporaneo con Let’s Roll. Nel 2010 cancella diversi show a causa delle sempre più gravi condizioni di salute e l’anno dopo ci regala The Dreamer, il suo ultimo lavoro prima della scomparsa, il 20 gennaio 2012, a seguito di complicazioni respiratorie, con il fisico devastato da una maledetta leucemia e la testa ormai persa a causa di una brutta forma di demenza senile. Il suo lascito rimane immenso e ancor oggi Etta James resta tra le inarrivabili, tra quelle star che sono riuscite a dare alla musica più di quanto avessero ricevuto. Se le sette note sono state per lei una salvezza, le sue canzoni hanno toccato il cuore a un numero infinito di persone, regalando una speranza, dimostrando che è possibile riscattarsi e cambiare in meglio il proprio destino. Unica.
"At last
My love has come along
My lonely days are over
And life is like a song
Ohh yeah, yeah"
(Da "At Last", una delle canzoni più famose di Etta James)