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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
01/08/2025
Live Report
Melvins + Redd Kross, 31/07/2025, Circolo Magnolia, Milano
Serata notevole con ben due band di culto quella al Magnolia, che ha visto avvicendarsi sul palco nientemeno che Melvins e Redd Kross. Grande accoppiata e due ottimi live. Non avete avuto modo di andarci o volete rivivere la serata? Qui il live report.

Melvins e Redd Kross hanno in comune diversi aspetti, cosa che rende questo tour assieme un fatto per certi versi naturale: innanzitutto il loro status di band di culto, mai beneficiari di vendite importanti (i Melvins da questo punto di vista sono messi un po’ meglio) ma particolarmente influenti tra le generazioni successive di musicisti (Kurt Cobain, per fare solo un esempio, era fan di entrambi i gruppi, ma pensiamo anche al ruolo avuto dai Melvins nello sviluppo di un certo tipo di Metal).

Inoltre, da qualche anno le loro line up si sono curiosamente intrecciate: Dale Crover, il batterista originario dei Melvins, si è unito ai Redd Kross mentre dall’altra parte Steve McDonald, fondatore del gruppo della Southern California assieme al fratello Jeff, suona stabilmente nella band di “Buzz” Osborne. Una commistione senza dubbio non comune, che è divenuta a questo punto un ottimo pretesto per un tour europeo che, per fortuna, ha toccato anche l’Italia: le date di Roma e Milano sono state un’occasione soprattutto per vedere all’opera i Redd Kross, che dalle nostre parti mancavano dal 2017.

 

Il Magnolia è allestito sul palco piccolo e, almeno per il momento, l’affluenza risulta giustificata. I Redd Kross fanno il loro ingresso alle 20 in punto, curiosamente arrivando dalla zona bar e passeggiando allegramente in mezzo al pubblico, agghindati con improbabili camicie bianche spruzzate con motivi colorati simili a macchie di vernice. Si entra subito nel vivo con un’energica versione del classico “Huge Wonder” ma purtroppo i suoni non sono settati benissimo, con la voce soprattutto che risulta troppo bassa. Migliorerà in seguito, ma direi che da queste parti abbiamo sentito di meglio.

Il quartetto di Hawthorne, tuttavia, appare su di giri e dà vita ad un concerto divertente dove, un po’ a sorpresa, la fanno da padrone i brani di Redd Kross, il disco uscito lo scorso anno e probabilmente il migliore dalla reunion di inizio Duemila (non a caso porta come titolo il nome del gruppo, significativa dichiarazione d’intenti): in effetti le varie “Stunt Queen”, “What’s in It for You”, “Candy Coloured Catastrophe”, “Emanuelle Insane”, “Born Innocent” (quest’ultima dà anche il titolo ad un recente documentario sulla storia del gruppo, firmato da Andrew Reich) mettono in mostra una notevole qualità di scrittura, in tutto e per tutto degna del Punk/Power Pop che ha contribuito alle loro fortune. Stessa cosa si può dire per “Uglier” (cantata da Steve, una delle sue sporadiche incursioni dietro al microfono) e “Stay Away From Downtown”, che provengono dall’ottimo Researching the Blues, del 2012. Qualche pezzo storico arriva comunque, in particolare “Annie’s Gone”, accolta molto bene dal pubblico, oppure l’anthemica “Crazy World”, da quel Phaseshifter che alla fine risulterà il più rappresentato, tra i dischi del primo periodo.

Non manca ovviamente il loro omaggio ai Beatles, vera e propria ossessione dei fratelli McDonald: la ruvida interpretazione di “It Won’t Be Long” viene dedicata ad Ozzy Osbourne che, come ricordano dal palco, era anche lui un fanatico dei quattro di Liverpool. Il Madman recentemente scomparso viene salutato anche con un breve accenno ad “Iron Man”, il cui celebre riff viene canticchiato e suonato prima che si buttino in “Crazy World”.

Bellissimo il finale con “Jimmy’s Fantasy”, con una coda piuttosto roboante che inanella in maniera alquanto ironica tutti i principali cliché del rock, tra mosse plastiche e stacchi rumorosi e con una graditissima citazione del Blues acido di “I Want You (She’s So Heavy)”, giusto per rimanere in tema Beatles.

Un gran bel set, il loro, particolarmente in palla nonostante i problemi tecnici: tra gli altri, Jason Shapiro si è dimostrato un ottimo chitarrista, funzionale al suono della band, mentre Dale Crover ha spinto come un dannato, anticamera di quello che di lì a poco farà vedere coi Melvins.

 

Terminata la prima esibizione, la conformazione del pubblico cambia quasi totalmente: arriva un sacco di gente che prima era evidentemente andata a mangiare, in tanti si accalcano sotto al palco pregustando un pogo liberatorio, con la conseguenza che l’area si riempie in maniera fin troppo abbondante.

Quando i Melvins saliranno sul palco sulle pesanti note di “Working the Ditch”, le condizioni di vivibilità saranno piuttosto basse, col pubblico eccessivamente ammassato e le possibilità di vedere qualcosa molto ridotte per chi si trovava in fondo. Scelta inspiegabile, francamente: a meno che la stragrande maggioranza dei presenti si sia presentata in cassa mezz’ora prima dell’inizio (cosa di cui dubito) i numeri della serata avrebbero dovuto convincere gli organizzatori a far suonare sul main stage, ne avremmo sicuramente beneficiato tutti. Il lato positivo, se non altro, è che il suono adesso risulta decisamente migliorato.

Per il resto, che dire dei Melvins? Il gruppo di Montesano, Washington, è ormai una vera e propria istituzione, ha anticipato il Grunge così come il Metal e continua a sfornare dischi con puntualità imbarazzante e senza mai calare dal punto di vista qualitativo (ascoltate le botte clamorose di Tarantula Heart e Thunderball, usciti a brevissima distanza l’uno dall’altro, se non ci credete).

La performance di stasera è di una pesantezza quasi chirurgica, con le due batterie (oltre a Dale Crover c’è Coady Willis) a martellare incessanti e “King Buzzo” Osborne a macinare riff schiacciasassi con la sua chitarra, offrendo al contempo una prova vocale di grande potenza (spesso doppiato con efficacia da Steven McDonald). Il leader del gruppo è quasi defilato, non parla mai e preferisce comunicare col magnestismo della sua musica, lasciando al bassista (che da parte sua è più compassato ma sempre istrionico come coi Redd Kross) e a Dale Crover il compito di svolgere quelle poche obbligate relazioni col pubblico (per esempio la presentazione dei vari componenti). Del resto, c’è ben poco tempo per perdersi in chiacchiere: il set è tutto un susseguirsi di brani uno di fila all’altro, senza pause, coi finali che si fondono spesso nei primi accordi del pezzo successivo, ed un senso di perenne inquietudine ad aleggiare nell’aria.

Le cose più recenti, come lo Sludge devastante di “Never Say You’re Sorry”, “Evil War God” e “The Bloated Pope”, si alternano ai classici provenienti da Houdini e Stoner Witch (“Hag Me”, “Honey Bucket”, “Revolve”), che hanno un piglio più rock ma che sono date in pasto al pubblico attraverso esecuzioni che sono sempre autentiche mazzate sui denti.

I quattro sono devastanti anche quando rinunciano a picchiare duro e si lanciano in improvvisazioni e dilatazioni varie che, come nel finale di “Your Blessened”, fanno entrare un po’ di psichedelia ma non contribuiscono certo ad alleggerire la tensione.

Stranamente non arriva nulla da Thunderball (forse perché realizzato con una line up differente, un trio che vedeva Dale Crover al basso ed il rientro del batterista originario Mike Dillard) ma si conclude con una “Night Goat” potentissima e tirata rumorosamente in lungo, congedo perfetto per un concerto breve (poco meno di settanta minuti) ma che si può senza esagerazione definire perfetto.

Grande accoppiata, speriamo ci sia presto un’altra occasione per rivederla.